lunedì 29 settembre 2014

Taccuino di San Pietroburgo condiviso con Igor Kopilov. Quarta puntata.

Non solo Manifesta 10. Pop-sovietico e grafica satirica.
Alla ricerca di un nuova identità tra pop-sovietico e nuovi conflitti. Lubok e nostalgie.

La Russia del XXI secolo è alla ricerca di una nuova identità culturale. Si muove tra nostalgie e antichi conflitti, ma la cultura visiva pare essere ancora un elemento costitutivo fondamentale.
Pavel Pappestein, Criminale, 2014
Da dove partire?
Pavel Papperstein parte da una nuova utopia. Per Manifesta 10 esponeUgolovnic“ “Criminale”.

Gioca con la parola russa ugol che significa angolo. Il linguaggio è suprematista, del tipo che si trova nei vecchi francobolli, nelle etichette delle scatole di fiammiferi[1], nei libri per l’infanzia e in tutta la grafica didattica e propagandistica.
Ad una intervista a Chiara Mariani su La Lettura del 20 aprile, dice: <<Viviamo in un periodo in cui la cultura ha responsabilità enormi. In un momento storico così inquietante, cerco di alleviare gli animi con le mie fantasie. Non so se questo intento terapeutico ha successo, perché il grado di incomprensione tra le persone è elevato. Ma ci provo e credo di farlo con coerenza. Perché, a differenza dei politici che possono smentirsi, l’artista deve seguire un logica estetica.
Pagina 30 Art Dossier 312,
etichetta scatola di fiammiferi 
Come nel periodo sovietico — continua — viviamo in una nuova utopia. Alla Rivoluzione bolscevica del 1917 seguì la fede in un nuovo mondo. Oggi avviene qualcosa di simile, ma nell’Ovest, dove domina una fede cieca nelle possibilità del capitalismo. Per me è triste costatare per esempio la cecità rispetto a ciò che stava per succedere a Kiev.>>[2]
In Italia Pavel Papperstein è conosciuto per aver partecipato alla Biennale di Venezia del 2009, nel padiglione russo. Enfant prodige, figlio dell’artista Viktor Pivovarov e della poetessa Irina Pivovarova.
Alla fine degli anni Ottanta fonda il gruppo Medizinskaia Germeneutika, con lo scopo di soccorrere i simboli del proprio paese svuotati dalla storia, recuperare i segni della tradizione, una volta governati dalla collettività, ora consegnati all’immaginazione individuale. Attinge a piene mani al suprematismo di Kazimir Malevič. Fa il verso a El Lisickij e Kandinskij, ai poster di Majakovskij. Nelle sue opere le tracce della Pop Art e del folklore russo fluttuano liberamente senza stabilire gerarchie.
Gatto di Kazan, Lubok
La società russa nel suo complesso è in cerca di una nuova identità culturale. Nella confusione tutto si mischia: la nostalgia dei simboli sovietici, il lusso dello zar, la mitologia siberiana, lo sciamanesimo e la chiesa ortodossa. L'arte contemporanea non vive bene lo scontro in atto. Emergono dal passato forme estetiche stabilizzate che la nuova società russa riconosce come tradizionali, quindi radici laiche: non icone sacre, non opere "oscene" in quanto anti governative o peggio anticlericali.
Un genere artistico molto diffuso prima della rivoluzione di ottobre, il lubok o quadretto popolare, un’immagine a stampa con una didascalia, spesso satirica è, oggi, oggetto d’attenzione non solo di studiosi, ma di persone comuni.
xilografia
Il primo museo del lubok nasce nel 1992, a Mosca. Da allora l’interesse verso queste opere aumenta sino a divenire fonte di ispirazione per stilisti e oggetto da collezione. La nuova società russa pare riconoscere nel lubok uno strumento attraverso il quale costruire la propria nuova identità culturale.
Ne parlo con Igor e casualmente trovo in libreria una pubblicazione recentissima dal titolo “La natura artistica delle stampe popolari russe” Jurij Michajlovic Lotman a cura di Lucina Giudici. Approfondisco l’argomento.

Libraio
Mi piace la casualità per cui, in una libreria sulla prospettiva Nievskij, a San Pietroburgo, per pochi euro è possibile stampare delle xilografie, utilizzando un tornio Ottocentesco. Tra le matrici messe a disposizione dal libraio, si possono scegliere quelle che piacciono di più e, stamparle. Igor mi fa stampare un gatto.
 La tradizione di vendere stampe a poco prezzo in Russia è strettamente legata alle fiere, ai mercati e al teatro. Si diffonde a partire dal XVI secolo. Per questo tipo di stampe viene privilegiata la xilografia, che utilizza il legno, tecnica semplice ed economica. In Russia il legno di tiglio è molto diffuso. Una caratteristica interessante è che i lubki stampati in nero, prima della cromolitografia venivano colorati a mano nei colori: minio (surik), lampone (sandal), ocra (ochra) e verde (prazelen’). La colorazione a mano veniva realizzata in circa 1000 villaggi, sopratutto da ragazze e donne povere.
Babajaga, Lubok
Nei secoli mutano i luoghi di produzione, i destinatari, insieme alle tecniche legate sempre più alle trasformazioni sociali e culturali. Un tratto costante di questa espressione artistica popolare, almeno fino alla diffusione della produzione industriale, rimane la contaminazione dei linguaggi espressivi, la varietà dei soggetti attinti alle fonti più disparate.
Alla mostra “L’Avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente“ realizzata lo scorso anno, a Palazzo Strozzi, per la prima volta sentii parlare di lubok. Fu poi Igor a farmeli conoscere.
Mikhail Larionov, 
“Le stagioni”, Autunno 1912,
 olio su tela
Una sezione poneva a confronto stampe russe, cinesi e giapponesi.
Nelle opere di propaganda si faceva riferimento ai lubok. Mi colpirono alcune stampe di Vasilij Vereščagin, realizzate nel 1904-05. Nella stessa sala erano presenti anonimi incisori di propaganda filo russa e alcuni manga dei giapponesi Kabayashi, Motita e Harada di propaganda filo giapponese. 
In questi due anni di guerra vennero stampati in Russia 300 lubki, dei quali un terzo dedicate al conflitto.
Mikhail Larionov, 
“Le stagioni”, Primavera1912, 
olio su tela
Con le avanguardie dell’inizio Novecento, quando il lubok artigianale perse la sua forza espressiva, le stampe popolari divennero un punto di riferimento per la cultura alta.
Sono sopratutto i neoprimitivisti Larionov e Gončarova a rifarsi esplicitamente al lubok, di cui esaltano la bellezza semplice e senza malizia.
Al linguaggio del lubok fa un chiaro riferimento Michail Larionov nel ciclo “Le stagioni” 1912, satira, linguaggio semplice e didascalie ne sono una componente fondamentale.
Nel 1913 Larionov organizzò una mostra in cui espose Lubki e icone di sua proprietà e di Natal’ja Gončarova. Nell’arte sovietica, poi, il lubok ha lasciato un segno evidente sopratutto nella grafica.[3]
La cultura visiva è ancora fondamentale per l’ identità culturale di un paese? Pare di sì.
Questo è sicuramente il motivo per cui la cultura moderna e le sue espressioni più forti sono contrastate con violenza e si tende a mostrare un società postsovietica attraverso l'innocua forma satirica presovietica. 

A.R.C.
I.K.

Indice delle puntate:
Continua...




[1] Sulla grafica di scatole di fiammiferi vedi Duccio Dogheria, “Dio si nasconde nel dettaglio: grafica pop comunista dell’Est Europa. Art dossier N°312, pp.30-35.
[3] Cfr. Jurij Michajlovic Lotman a cura di Lucina Giudici “La natura artistica delle stampe popolari russe”, Book Time, Milano, 2014

mercoledì 24 settembre 2014

Conversazione con Marco Sanna/ Attore e regista della compagnia Meridiano Zero

Adda passà a nuttata
 B -Tragedies
Meridiano Zero nasce nel 1995 a Sassari per volontà di un gruppo di artisti provenienti da diversi campi che si incontrano sul terreno comune della ricerca teatrale
La compagnia ha sempre portato avanti progetti, anche, in campo sociale, occupandosi di didattica teatrale all'interno di scuole, carceri e strutture psichiatriche, privilegiando il rapporto di scambio culturale e mantenendo alta l'attenzione sul disagio e la marginalità.
Le ultime produzioni riguardano una trilogia shakespeariana trash B-TRAGEDIES. 
Nata come desiderio di commistione fra linguaggi diversissimi, spazzatura e lirismo poetico, il risultato è stato una riscrittura di Macbeth in ADDA PASSA' A NUTTATA e un disorientato Amleto in SEARCH&DESTROY. In Preparazione THIS IS NOT, WHAT IT IS, Otello visto da Meridiano Zero.
Dal 2005 organizza la rassegna  MAROSI DI MUTEZZA, ricerca sui linguaggi del contemporaneo. www.meridianozero.org


A.R.C. Perchè una trilogia su Shakespeare?
M.S. Ho sempre avuto una certa passione verso l’opera di Shakespeare e, perchè Shakespeare è un autore con cui in qualche modo ti devi confrontare se fai questo lavoro.
Non è la prima volta che lo affrontiamo. Lo si è indagato, in maniera diversa, tante altre volte, magari a spizzichi e bocconi. Questa volta si è deciso di prendere tre tragedie. Ovviamente rimettendoci mano e con una nostra visione. Una trilogia shakespeariana trash.

A.R.C. Perchè trash?
Ovviamente quando metti le mani su Shakespeare per farne un’altra cosa, il risultato è trash, per forza. Non può che essere così.
Ci interessava l’idea di lavorare su linguaggi differenti. Il linguaggio alto della tragedia e il linguaggio basso, che viene dal quotidiano, da altre forme di espressione: vuoi che siano televisive, che vengano dalla strada.

A.R.C. In ogni caso tutto questo c’è già in Shakespeare è teatro popolare. L’alto e il basso, si mischia. Ci sono dei momenti di alta poesia, riflessioni filosofiche e battute grevi, doppi sensi. Forse oggi si deve recuperare la scrittura complessa. I sentimenti sono ancora gli stessi di allora: l’invidia, la gelosia.
M.S. Sì ci appartengono ancora. Ci piace scardinare il preconcetto che Shakespeare sia palloso e intoccabile.
Io non ho mai avuto questa sorta di riverenza verso i testi, qualunque essi siano, a costo di fare degli sbagli madornali. Naturalmente parto da un profondo rispetto.

A.R.C. Una cosa che mi piacque molto, quando vidi ADDA PASSA' A NUTTATA, il lavoro su Macbeth, è stato il riferimento ad un altro grande del teatro Eduardo De Filippo. Shakespeare ed Eduardo, perchè?
M.S. In realtà è venuto abbastanza casualmente. Nell’affrontare Macbeth, durante le prove, è venuto fuori questo parlare napoletano o finto napoletano che sia. Per me è abbastanza finto, per Francesca (Ventriglia) meno, perchè lei è di origini napoletane. Da questa cosa che è nata organicamente, lavorando - perchè ci tornavano così i personaggi-, da lì è venuta fuori l’idea di infilare anche delle citazioni, sopratutto da “Natale in casa Cupiello”, che riguardano il battibeccarsi di questa coppia di vecchietti.

Adda passà a nuttata
 B -Tragedies
A.R.C. Oltre alle citazioni, ho notato dei ritmi. A me hanno colpito più i ritmi che le citazioni, ritmi che riconoscevo come di Eduardo. Dei momenti molto alti...
M.S. Molto lirici, sì certo...
A.R.C. ...e dei momenti di Francesca Ventriglia (Lady Macbeth) deliranti.
Gli stessi ritmi che ho ritrovato nel tuo Amleto. Perchè destrutturare Amleto a tal punto da non riconoscerlo?
Adda passà a nuttata
 B -Tragedies
M.S. Per un senso di pericolo in qualche modo. Provo a spiegare questa cosa.
Quell’Amleto lì, questo SEARCH&DESTROY come l’ho chiamato, parte da una condizione di stanchezza, dovuta al fare quello che si fa da sempre. Questo Amleto, che si rimette in scena per cinquecento anni, non ne può più di ripetersi sempre uguale.
Ho voluto mettere il lavoro dell’attore in una dimensione pericolosa, sopratutto mettere me in questa condizione, perchè sono io che lo faccio. La struttura si è formata man mano. Le prime volte che l’abbiamo messo in scena, quasi non avevo testi a memoria. Andavo a braccio.
Questo condizione, cioè lo stare in scena senza sapere che fare, a parte alcune cose che mi ero fissato, ti mette in uno stato di pericolo costante.

Search & Destroy
B-Tragedies
A.R.C. Provare smarrimento e non sapere come affrontare le cose. Il Nocciolo di Amleto.
M.S. Esatto. Essere indecisi, se prendere una strada piuttosto che un’altra. In qualche modo l’ho voluto quasi ricreare realmente questo smarrimento, che è il mio. La primissima volta che l’abbiamo messo in scena, la sensazione più forte è stata che il pubblico ad un certo punto mi tirasse qualcosa.
Mentre facevo un pezzo trashissimo, ho visto qualcuno che scattava fotografie, ho pensato <<Questo fa le foto perché non può credere a quello che vede!>>
E’ stato molto strano. Dopo lo spettacolo, tanta gente è venuta in camerino. Non me l' aspettavo. Invece è piaciuto proprio questo senso di smarrimento.

A.R.C. Lo smarrimento di Amleto è quello dell’attore. Entrambi sono stufi di raccontare, da cinquecento anni, gli stessi dubbi, vogliono trovare nuove strade. 
C’è una nota biografica in questo?
M.S. Come attore ti interroghi sempre. Per chi lo faccio? E poi di questi tempi se riesci a fare otto-dieci repliche è tanto, poi non riesci ad andare da nessuna parte. In Italia chi riesce a fare delle repliche serie si conta sulle dita di quattro mani.
Search & Destroy
B-Tragedies
Fai un lavoro, ci passi mesi, ti piace, piace al pubblico e nonostante tutto non riesci a portarlo oltre un certo limite.
La cosa drammatica è che i giovani, (in Italia a quarant’anni sei sempre emergente) intendo i giovani veri, i ventenni non ci sono, parlo della situazione Italiana, a Sassari ma anche in altre città che conosco.
Quando abbiamo iniziato, noi avevano ventiquattro anni, c’era un po’ di gente della nostra età intorno, che faceva le stesse cose, in una città così piccola come può essere Sassari.
In questo momento non ci sono ventenni che sperimentano. Ce ne sono pochi e sono incanalati in certi tipi di linguaggio, più tradizionale. Io personalmente mi domando:<< Qui dove vivo, con chi avrò a che fare quando avrò sessantanni?>>

A.R.C. Allora, perchè fare il terzo lavoro su Shakespeare?
M.S. Perchè il teatro è un cancro! Quando ti piglia è una lotta a guarire, se no ti uccide.
A.R.C. Qual’è il terzo capitolo?
M.S. Il terzo capitolo è Otello. Si intitolerà THIS IS NOT, WHAT IT IS, “Questo non è, quello che è” parafrasando la frase di Jago “I’m noto, what I’m” “Non sono, quello che sono”.
Adda passà a nuttata
 B -Tragedies
Ed è un Otello ovviamente trash, perchè dobbiamo chiudere questa trilogia. E’ basato ovviamente sul rapporto di coppia. Non poteva che essere così, visto che è il centro della tragedia.
Siamo in fase di lavorazione. Stiamo lavorando a fatica, per tanti motivi,  compresi quelli che abbiamo appena detto.
A settembre avremo alcune serate, a Livorno il 27 settembre, al Centro Artistico il Grattacielo. Prima faremo Sassari, e alcuni paesi qua in Sardegna, poi all’ISAO Festival di Torino

A.R.C. Voi organizzate, qui a Sassari, anche una interessante rassegna di teatro, che si chiama MAROSI DI MUTEZZA. Da quanti anni?
M.S. Sono quasi dieci anni, siamo arrivarti alla nona edizione.

A.R.C. Create in questo modo una interessante rete tra compagnie di teatro contemporaneo. Come è nata e, come si è evoluta?
M.S. E’ nata dalla passione e dalla voglia di mostrare delle cose che difficilmente si sarebbero viste qua sul territorio. In questo momento è l’unica rassegna in città che da spazio ad un certo tipo di teatro.
Nasce con l'obiettivo di trovare delle collaborazioni, delle affinità, con l’intento di formare un pubblico. 
Dopo anni ci siamo riusciti. E’ stato lentissimo, ce li siamo dovuti andare a cercare uno per uno.
Le prime edizioni erano dieci, venti. C’era una disabitudine totale. Dai miei quarantaquattro anni, posso dirti che non si vedevano cose di questo tipo in città dal ’94-’95. Dalla compagnia Ariele di Alberto Capitta, che in seguito ha chiuso.
Devo dire la verità che quest’ultima edizione del 2013 è andata molto bene, un bel riscontro di pubblico e un senso di affezione. Tra l’altro il nostro pubblico ha partecipato ad una iniziativa di crowdfunding, che abbiamo fatto prima della rassegna, perchè eravamo in difficoltà. Il 2013 è stato particolarmente triste dal punto di vista economico.
A.R.C. Quest’anno?
M.S. Quest’anno ci saranno quattro appuntamenti doppi, con spettacolo 18,30 e 21.00. Ci saranno ospiti otto compagnie, anche compagnie sarde, per tenere un occhio sul territorio. Sarà ad Ottobre come sempre, dal 2 al 21.
A.R.C.

martedì 23 settembre 2014

Taccuino di San Pietroburgo condiviso con Igor Kopilov. Terza puntata.

Manifesta 10. Effetti collaterali.
Cupole, notti bianche e parassiti.

Sembra giorno e sono le 22.00 a San Pietroburgo. É Luglio, ci sono ancora le notti bianche.
Al Museo dei giocattoli meccanici sovietici, i giocattoli esposti si possono utilizzare. Alcuni ragazzi giocano con un biliardino protetto da una cupola di plastica, -probabilmente perché nessuno rubi la pallina o la faccia saltare fuori dal campo-, altri giocano con i videogame. L’ingresso è gratuito. Al bar, un frammento di nostalgia, il caffè viene servito in piccole tazzine in ferrosmalto. All’esterno suona un gruppo di musicisti, forse kazaki.
Dal cortile è visibile una delle cupole dorate della Cattedrale della resurrezione di Cristo, nello stile che si ispira all’ architettura russa medievale. Particolare rilevante in una città di impianto neoclassico e occidentale. Fu eretta da Alessandro III, sul luogo dove venne ucciso, in un’attentato lo Zar Alessandro II. Da qui il nome per cui è da tutti conosciuta chiesa del Salvatore sul Sangue Versato (1883-1907). 

Igor mi fa conoscere l’interessante mostra del collettivo Parazit, al Borey Art Center www.borey.ru, un evento collaterale a Manifesta, il cui tema è l’invidia nera.
Storicamente la Galleria Parazit non ha mai avuto una sua sede legale, i sui componenti operano sui corpi di varie istituzioni culturali, i luoghi e gli spazi non destinati ad attività espositive. Il nome Parazit è stato ideato da Vladimir Kozin e Vladim Fliaghin del gruppo “Tupie Gruppo Novie”.
Parazit è parte di un progetto più ampio chiamato “Arte delle masse”.
Il tema Invidia Nera, è  il tentativo di considerare il difficile rapporto tra la scena locale e scene internazionali.
I Parazit partono dal presupposto che la motivazione alla creatività nel mondo contemporaneo è il successo. I molti artisti locali lasciati fuori dal grande evento, manifestano le loro ambizioni, sognano ad occhi aperti, desiderano di più. Un artista non realizzato vuole essere un membro di Manifesta 10.
In molti artisti la mancanza di successo sviluppa invidia, questa provoca l’immagine opprimente di una vetta irraggiungibile; per altri la sollecitudine verso il successo altrui diventa una forza.

Desiderando possedere i beni effimeri degli artisti di successo, i Parazit convincono se stessi ad occuparsi di creatività, mettono in atto la finzione dell’ artista-non-realizzato e trasformano questa energia, fino ad arrivare ad un bivio, di fronte al quale operare una scelta. Che strada percorrere? Un cartello dice “Vai a sinistra” e forse perdi la gloria, l’altro “vai a destra”, potresti perdere anche la testa.
In tutto il suo talento orientato alla soppravivanza l 'homo sovieticus affiora nel grottesco del presente: nessuna Associazione degli artisti sovietici a cui aspirare, bensì poter accedere alle grandi Biennali mondiali.
Vladimir Kozin è uno degli artisti conosciuti anche in Italia. Qui espone "La mia patria ambulante”.
Qualche anno fa, Kozin ha esposto in Italia al PAC di Milano, nella collettiva Materia prima. Russkoe Bednoe “l’arte povera” in Russia. Proponeva opere parodistiche e dissacratorie realizzate con copertoni di auto. Al famoso “For the love of God” il teschio realizzato con 8.601 diamanti di Damien Hirst opponeva il suo realizzato con vecchi pneumatici.
"La mia patria ambulante" è un viaggio vero e proprio dentro l’animo di un artista russo del XXI secolo.
Kozin rappresenta plasticamente questo peso. “Ogni volta attraversando la frontiera della mia Patria, provo un senso di invidia e disperazione dal momento che ho avuto un contatto con un altro mondo. In quest’altro mondo non ci sono le cose che io trascino con pesantezza nella mia coscienza come se fossi un “bardotto” di Repin. Questo carico è l’eredità del passato sovietico di cui mi viene tanta voglia di liberarmi ma che non riesco ad abbandonare”.
Il'ja Efimovič Repin, Trasportatori di chiatta sul Volga, 1870–73,
Ma tutte queste problematiche sono artificiali già in partenza, perché sottintendono il lavoro per un pubblico, già di per sé estraneo alla creatività. La posizione parassitaria del gruppo, rispetto alla società contemporanea, ne rispecchia un'altra ben più drammatica. Parassiti erano definiti, nella società sovietica, gli artisti che non producevano niente per la società. 
Nel 1964 il poeta Josif Brodskij subisce un processo il cui capo d’imputazione è “parassitismo sociale”. Per giudice e procuratore generale i fatti erano chiari e, prova di colpevolezza. Dal 1956, Brodskij, aveva cambiato impiego tredici volte. Lavorato un anno in una fabbrica, poi smesso di lavorare per sei mesi. L’estate successiva aveva partecipato a una spedizione geologica, per poi restate quattro mesi senza lavorare. Il parassitismo sarebbe, dunque, di evidenza clamorosa. 
Che tipo di lavoro può essere quello di poeta? Altri tempi, altre storie. Forse.
A.R.C.
I.K.

Indice delle puntate:
Continua...

lunedì 22 settembre 2014

Conversazione con Dario Costa, artista. Wilson Project Space, Sassari.

Wilson Project Space
Una  conversazione con Dario Costa responsabile dello spazio espositivo Wilson Project. 
Il primo progetto Wilson Project è cresciuto all'interno di una ex officina, dove sono state allestite le prime mostre.
Il nuovo spazio si trova, ora,  la centro storico di Sassari. E' stato inaugurato questa estate con la mostra di un giovane artista, Martina Bassi e prosegue in autunno con Igino Panzino. 
Questo linea irregolare definisce il modo di pensare all'arte di Dario Costa, interessato sia alle nuove proposte, che ad artisti storicizzati del nostro panorama nazionale. 

A.R.C. Parlami di questo spazio. Cos’è Wilson Project?

Martina Bassi,
òPPERSPEC, 2014
D.C. E’ uno spazio no profit che ho aperto due anni fa. Invito artisti a presentare dei progetti.
Ho affidato le curatele a Micaela Deiana, una giovane curatrice. Con lei abbiamo iniziato a lavorare con giovani artisti del territorio. In seguito ho intrapreso collaborazioni con altre gallerie, altri spazi e fondazioni portando artisti che non lavorano in Sardegna. 
Mi interessava creare un confronto, creare delle opportunità di relazione.
Abbiamo inaugurato il nuovo spazio, qui al centro storico, con la personale di Martina Bassi òPPERSPEC, a cura di Giovanna Mazzotti.

A.R.C. Ho conosciuto Wilson Projet nel vecchio spazio, non in periferia, ma un luogo meno centrale. Era un garage o sbaglio?
D.C. L’ex officina di un’elettrauto. Mi piaceva l’idea di uno spazio vissuto. Ho lasciato il pavimento così com’era, una vecchia graniglia degli anni Cinquanta corroso dalle batterie usate per anni dal meccanico.
Mi piaceva l’idea di un’officina in cui si montano e rismontano le cose. Era un’officina di progetto in cui gli artisti potessero lavorare.
Abbiamo fatto diverse cose. Io non seguo un vero e proprio programma, non mi piace seguire un filone artistico. Mi piace molto il contatto con l’artista, sapere quanto si voglia mettere in gioco e condividere il suo lavoro con ciò che faccio.
Questo è per la Sardegna un periodo interessante, forse perché rispetto a certi linguaggi è più vergine.

A.R.C. Forse perchè è un isola. E’ un concetto che torna spesso nei discorsi degli artisti sardi, ogni passaggio di generazioni. Dell'isolamento bisogna tenere conto, non necessariamente in senso negativo. Quello che potrebbe apparire uno svantaggio, diventa un’opportunità, se saputa cogliere.
D.C. Sì. Da poco ho visto un documentario su un’isola. Mi ha colpito una frase relativa ad alcune specie di animali che lì prosperavano. In un’isola ci sono meno predatori, questo ti protegge ma di contro ti fa abbassare la guardia. Ritornando all’arte, abbassare la guardia significa non essere aggiornati, oggi possiamo conoscere attraverso il web.
Penso che sia necessario fare esperienze fuori dal proprio orticello. Mi sono sempre mosso, ho viaggiato, ho cercato il confronto. Però, penso che in un’isola ci possa essere più libertà.

A.R.C. Quanto conta internet nel tuo lavoro. Nel conoscere giovani artisti, nel far conoscere il tuo progetto?
D.C. Un tempo quello che oggi è rappresentato da internet, era rappresentato dalle grandi fiere.
Di solito erano appuntamenti immancabili. Incontro tra galleristi, artisti, collezionisti.
Oggi non c’è galleria che non abbia un sito. Gli artisti che non hanno un loro sito, hanno un blog o condividono le immagini dei loro lavori sui social.
Le Biennali erano delle occasioni d’incontro di grandi collezionisti, era un occasione per vedere gli artisti. Prima di internet la scoperta di nuovi artisti avveniva esclusivamente mediante questi passaggi. Oggi, con internet questo tipo di rapporti non è più esclusivo.
Rimanendo nel contesto nel quale lavoro, cioè la Sardegna, per i giovani artisti, per gli studenti dell’accademia, ma anche per me è un’ opportunità. I mezzi di trasporto sono sempre quelli che sono, siamo pur sempre un’isola.


Daria Irincheeva,
 "Almost aqua" 2013
A.R.C. I vantaggi e gli svantaggi però si equivalgono. Sul web fai difficoltà a distinguere la qualità dalla fuffa. Molto spesso, un’alta qualità tecnologica non corrisponde a qualità di contenuti.
D.C. Sì, spesso vengono costruite mostre in funzione di ciò che rende meglio nell’installazione o in una pubblicazione.

 
 
 



 
A.R.C. Penso che funzionasse così anche per certe riviste patinate. Si pubblica l’opera che funziona meglio in foto. Diciamo che in questi casi c’è un filtro, sul web la democrazia orizzontale digitale può disorientare.
D.C. E’ comunque un’opportunità per tenerti aggiornato, conoscere.

A.R.C. Condivido.
Maria Lai,
Carica di futuro, 2013
Qui in Sardegna abbiamo avuto un momento molto intenso nell’arte contemporanea. Molti artisti hanno collaborato con gallerie e avuto notorietà fuori dalla Sardegna. I giovani di allora avevano alle spalle l’esperienza di artisti, più anziani, che hanno lavorato in un territorio più acerbo, eppure hanno tracciato il cammino. Wilson ha dedicato una mostra a Maria Lai, ad esempio. Da artista e ideatore di uno spazio espositivo, come ti poni rispetto a questo tipo di sedimentazione?
 
D.C. Certe esperienze sono sicuramente legate al mercato. Io sono molto curioso, mi interessa conoscere esperienze che non ho potuto vivere di persona, perchè ero troppo piccolo.
In Sardegna avevamo la Galleria Duchamp che negli anni Settanta e Ottanta è stata un luogo di progettazione e riferimento per diverse generazioni di artisti.
Oggi si parla molto di Maria Lai, che naturalmente è forse la più nota, ma ci sono molti artisti sardi che hanno lavorato alla Galleria Duchamp in quel periodo: Aldo Contini, Igino Panzino, Ermanno Leinardi, Tonino Casula. Sono molto interessato a quest’esperienza. Sì, nell'altro spazio rendemmo omaggio a Maria Lai con la mostra Carica di futuro, erano alcune opere di collezioni private.

A.R.C. E’ particolare che pur occupandoti di uno spazio proiettato nel futuro, uno spazio nuovo, che lavora con i giovani, sei interessato a creare dei ponti, con artisti del passato e realtà espositive che hanno lasciato una traccia importante nell’arte contemporanea della Sardegna.
 

Ever Growing, 2012
La Galleria Duchamp è legata ad un’epoca ben precisa, anche con i limiti di quell’epoca. Come nasce questo interesse? 
D.C. Forse abbiamo più limiti adesso. Occuparsi di determinati artisti dovrebbe essere un dovere delle istituzioni.
L’interesse per la Galleria Duchamp nasce da una curiosità che si è sviluppata leggendo articoli, recensioni. Ho visto che sono state fatte personali di Fontana, Rotella ho letto nomi come Barruchello, Dorazio, Melotti, Nivola. In Sardegna mancano gallerie di riferimento che facciano questo tipo di lavoro.
Ho dei progetti futuri in questo senso. La prossima mostra sarà Antologica breve di Igino Panzino. Il mio progetto come vedi va in questa direzione.
Quando abbiamo aperto il Wilson Project ci eravamo detti che avremmo voluto uno spazio aperto alla sperimentazione, al dialogo con il territorio, indipendente non solo nel senso istituzionale ma anche rispetto a un sistema dell’arte troppo svelto e superficiale nel decidere il cool e l’uncool.
Uno spazio dedicato al contemporaneo, un presente che include passato e futuro.

A.R.C

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giovedì 18 settembre 2014

Conversazione con Gigi Pittalis dell’Associazione Errabonda Fabrizio Pittalis.

L’Associazione è dedicata a Fabrizio Pittalis (1980-2007) poeta, scrittore, musicista, fondatore e animatore del forum letterario “Karpòs”.
Precocemente scomparso nel 2007, il suo libro “Molto spiacenti, Sir” è stato pubblicato postumo nel 2010.
I componenti del gruppo “Karpòs” assieme alla Biblioteca Clandestina Errabonda di Parma, alla notizia della sua scompara, sostennero il progetto del libro, e, per primi fecero conoscere le sue poesie.
Al Circolo Culturale Via Margutta -animato da Gigi e Lia – dal 2008 musicisti, poeti e artisti danno vita ad “Echi Poetici”, una rassegna di poesia, musica, arte visiva di cui Fabrizio è l’ombelico.
Errabonda Fabrizio Pittalis ogni anno costruisce nuove relazioni, sviluppa nuovi eventi artistici ai quali si affiancano progetti di impegno sociale, come il libro “Fatti mangiare dalla mamma”.

A.R.C. Raccontami dell’Associazione Errabonda Fabrizio Pittalis.
Sergio Vuolo,
(Fabrizio e il suo cane
Aika sul battello ebro)
G.P. L’Associazione Errabonda Fabrizio Pittalis nasce da un’esigenza sentita da parte di tutti. Sia dagli amici di Fabrizio in Sardegna, sia gli amici che stanno in Italia e all’estero. Quindi, assieme a Lia (Lia Ruggiu Presidente dell'Associazione) abbiamo pensato ad una associazione leggera, strutturata a Porto Torres, ma che desse la possibilità anche ad altri amici di Fabrizio di poter partecipare.
Tantissime adesioni. Molti artisti, come era prevedibile immaginare.
Lo scopo è quello di divulgare in giro per il mondo il lavoro di Fabrizio Pittalis come poeta e scrittore. Ogni aderente, ogni qualvolta si fanno delle iniziative a Roma, a Berlino, a Londra ha la possibilità di aprire una finestrella sulla figura di Fabrizio, leggere una poesia. Questo è lo scopo dell’associazione, accompagnare tutte le attività creative che si stanno sviluppando.
L’ultimo progetto che abbiamo seguito è a scopo benefico.
Un progetto il cui ricavato andrà all’ospedale Oncologico Pediatrico S. Chiara di Pisa dove Fabrizio è stato curato per due anni e mezzo. E' un libro dal titolo “Fatti mangiare dalla mamma” a cura di Rosamaria Caputi.

A.R.C. Chi l’ha ideato? Quali artisti vi hanno preso parte?
G.P. “Fatti mangiare dalla mamma” nasce da un’idea di Rosamaria Caputi una scrittrice e attrice, amica di Fabrizio. L’embrione di questo progetto nasce discutendo con me dell’opportunità di dedicare a Fabrizio un lavoro di tipo letterario. Poi via via è venuta fuori l’idea di fare qualcosa che potesse raccogliere dei fondi.
Re Barbaro,
"Echi poetici"
A quel punto, dall’idea iniziale di fare un libro strettamente legato alla poesia e alla letteratura, Rosamaria ha avuto la genialità di trasformare il progetto in un lavoro, forse il primo in Italia, che parla di cucina tradizionale e del rapporto tra madre e figli. Il rapporto tra genitori e cibo. 
Sono novelle di cucina illustrate, ricette della tradizione, frutto della creatività di ventiquattro autori.
Per la prima volta abbiamo un lavoro totalmente nato in rete con collaborazioni più ampie. A quest’idea hanno aderito tantissimi amici di Fabrizio, e tante persone che hanno visto in questo lavoro qualcosa che doveva essere fatta.

A.R.C. Chi volesse comprare “Fatti Mangiare dalla Mamma”, come può farlo?
G.P. Si può trovare nella libreria on line di Feltrinelli www.feltrinelli.it , e in quella del gruppo l’Espresso www.ilmiolibro.kataweb.it.
Sta andando molto bene, ha avuto un successo incredibile, tant’è che la prima settimana è balzato subito ai primi posti. Siamo molto contenti perché sta raccogliendo tanti fondi per l’ospedale attraverso AGBALT (Associazione Genitori per la cura e l’assistenza ai bambini Affetti da Leucemia o Tumore), che è l’associazione legata al reparto dove Fabrizio è stato curato.
I risultati sono concreti. E' determinate per l’accoglienza delle famiglie, sopratutto quelle che arrivano dall’estero, che arrivano da fuori Pisa. Vengono accolte in una struttura molto bella, che si chiama il Girasole, composta di dodici appartamenti, arredati di tutto punto.
Il progetto si chiama “Come a casa” quindi i bambini hanno la possibilità di curarsi e stare con quelli che sono gli affetti, avere la possibilità di stare bene, anche dal punto di vista psicologico, durante il percorso delle terapie.
Ci rende orgogliosi che questo libro abbia vinto il Premi Pavoncella 2014, per la sezione impegno sociale. E’ una cosa importante.

A.R.C. Il Circolo Via Margutta ogni anno ospita “Echi Poetici” poesia, musica, letteratura e arte visiva. E’ molto diverso dalla rete di progetti benefici dell’Associazione Errabonda, ma è un appuntamento importante.
Lia Ruggiu e Gigi Eletti
G.P. Esatto. “Echi poetici” è un evento a cui teniamo molto. Non ha una scadenza, non ci sono delle date precise, è un working progress, è un evento sempre aperto, che dura tutto l’anno.
Noi ogni tanto facciamo delle tappe, quando abbiamo delle cose interessanti da dire, sviluppiamo l’evento.
Lo facciamo sopratutto partendo dagli artisti locali, mi riferisco a musicisti, scrittori, narratori, disegnatori, artisti. Teniamo sempre conto della figura di Fabrizio, di ciò che a Fabrizio può essere congeniale.
Si svolge qui, in questo luogo che anche Fabrizio ha contribuito a costruire così come lo vediamo oggi.
Era molto orgoglioso che si stesse realizzando a Porto Torres un spazio come questo, con questo tipo di progetti.
Frankie, "Echi Poetici"
Ogni volta che facciamo un’iniziativa pensiamo se può andare nella direzione della sua personalità. Abbiamo sviluppato tanti percorsi. Ma la sua scrittura è sempre presente in “Echi poetici” o, attraverso una lettura pubblica o una reinterpretazione dei suoi lavori pubblicati nel libro “Molto spiacenti, Sir”.
Se vi interessa anche questo lo troviamo nelle librerie on line di Feltrinelli, Gruppo Espresso, Amazon.
Posso dare un’anteprima. Stiamo lavorando alla prossima pubblicazione. Perché “Molto spiacenti, Sir” è una piccolissima parte di quello che Fabrizio ha scritto, ci sono tantissimi inediti. Diciamo che ce la stiamo prendendo con calma. Non so quando uscirà, ma sicuramente uscira'. E’ in lavorazione.

A.R.C “Molto spiacenti, Sir” è anche il nome di una rassegna che si è svolta negli anni scorsi?
G.P. Sì, ne abbiamo fatto due edizioni. Non ha una scadenza. La prima si è svolta al Liceo scientifico dove Fabrizio ha studiato, la seconda al Teatro Parodi, la terza edizione si farà quando saremo pronti.
E’ più impegnativa di “Echi poetici”, per questioni anche di spazio. Qui lo spazio è più piccolo, il pubblico più ristretto, a teatro lo spazio è più ampio e abbiamo bisogno un lavoro organizzativo più complesso.
Molto spiacenti, Sir” è una contaminazione tra artisti locali e artisti che arrivavano da altri paesi. Nelle scorse edizioni erano presenti Alberto Masala, Andrea Dossetti, Alessandro Ansuini, Marica Bortolani, Enrico Masi, Stranos Elementos, Lia Ruggiu, Alessandro Muresu.
Stranos Elementos, (Riccardo Fadda)
"Molto spiacenti, Sir"

A.R.C. Per il futuro quindi possiamo dire che ci saranno: una terza edizione di “Molto spiacenti, Sir”, l’appuntamento annuale di “Echi poetici” e il nuovo libro di inediti di Fabrizio Pittalis.
G.P. Sì. In più c’è in lavorazione un’altro libro collegato a “Fatti mangiare dalla mamma” che si chiama “Fatti mangiare dall’amore”, probabilmente uscirà l’anno prossimo, con lo stesso scopo di devolvere il ricavato all’Ospedale Oncologico Pediatrico di Pisa.

Postfazione di "Fatti mangiare dall'amore"
testo tratto dai compiti di Fabrizio bambino.
A.R.C. L’impegno sociale prosegue con altri progetti, dunque.
G.P. A dire il vero ce n’è un’altro ancora, con Emergency.
Un’artista sarda Jole Serreli, ha messo in piedi un progetto che si chiama “In your shoes”, è un progetto in costruzione da un paio d’anni. Nasce a Londra con Emergency UK. Tutto il ricavato verrà devoluto all’associazione. Anche questo è un lavoro in progress. Ancora non sappiamo quando ci sarà l’inaugurazione. L’installazione dal titolo “In your shoes” è costituita delle scarpe di tanti artisti, ci sono Fresu, Sciola, che hanno donato le proprie scarpe affinché Jole potesse realizzare il suo lavoro. Oltre alle scarpe di Fabrizio ci sarà una poesia “Annusando certe crepe dell’estate”.

A.R.C.


Trovare Fabrizio Pittalis on line. Alcuni siti: