lunedì 29 dicembre 2014

Corrispondenze - Giulia Sini 29/12/14

Cara Giulia,
da parecchio tempo l’instabilità pare essere una condizione permanente. Una condizione perennemente in bilico tra l’essere e il non essere in un gioco ad elastico dentro una vita precaria.
Quindici anni fa, iniziai una collaborazione con la Soprintendenza, al fine di catalogare le opere d’arte del territorio. Contratti saltuari. La collaborazione è finita dopo alcuni anni, per motivi che non sto qui a raccontarti, scelte obbligate: precarietà con il collare o senza. Ma non è questo che volevo raccontarti.
Il progetto di catalogazione è molto importante, ha come fine non solo il censimento dell’esistente, ma è possibile capire quali problemi di conservazione esistono per le opere d’arte, la necessità di un restauro,la prevenzione dai furti. Giri per i paesi, le chiese e i cimiteri, conosci gente e capisci non solo il patrimonio, ma il rapporto che questo ha con la comunità.
Una cosa, che mi colpì molto, in quegli anni, riguarda proprio le sculture. Non i dipinti e gli affreschi, ma le sculture.
Moltissime chiese della Sardegna, negli anni d’oro della Controriforma, si arricchirono di Retabli e sopratutto di sculture lignee in estofado de oro. Ritrovarle spesso tarlate fino alla consunzione o sapere che in tempi di rinascita economica erano state sostituite da sculture in cartapesta, che giacevano impolverate dentro sacrestie grigie e fredde, mi dava un senso di precarietà e disfacimento.
Ricordo una bellissima statua in estofado de oro, una Madonna con bambino, mi pare fosse la Madonna d’Itria, con braccia danneggiate e la parte inferiore del corpo mancante, un po’ annerita, come il pinocchio di Collodi, dopo essersi avvicinato troppo al braciere. Ci raccontarono (io in quel momento fungevo da assistente, il titolare era un caro amico) che era stata attaccata dai tarli, molto danneggiata. Parecchi decenni prima, -presumo negli anni del benessere e della plastica-, qualcuno avevano pensato bene di usala come ciocco per i fuochi di Sant’Antonio. Salvata dal rogo e restaurata era finalmente possibile ammirarla nel suo splendore, tranne che per quelle parti oramai bruciate, che mostravano i segni anneriti della violenza.
Per molte opere d’arte a tema sacro, il sacro prevale sull’arte e a cascata la venerazione dei fedeli sull’ idea di opera d’arte, la venerazione dell’oggetto sulla bellezza, l’oggetto infine prevale su tutto.
La plastica potrebbe venire in soccorso a tutto questo?
No. Ho scoperto di recente che anche la plastica non è esente da tali attacchi, non c’è niente di eterno neppure nella plastica. L’attacco di funghi, muffe e batteri può manifestarsi con la perdita delle proprietà meccaniche, erosione della superficie, perdita di peso e infragilimento, restringimento e formazioni di macchie, ci sono poi alcuni microorganismi si nutrono del polimero stesso.
L’era della plastica pareva essere la soluzione a tutti gli attacchi biologici esistenti per i materiali naturali eppure non c’è materiale più temporaneo, instabile e poco resistente della plastica.
Ecco, questa è la mia esperienza sull’ impermanenza che ha acceso interesse sui tuoi bambini Zoona.

Madonna degli angeli, Episcopio di Bosa,
Scultura lignea in estofado de oro, MUS'A, Sassari.


Cara Anna Rita
il ritardo con cui rispondo alla tua lettera mi ricorda quelle belle corrispondenze cartacee che ho avuto soprattutto con gente mai vista (precorrendo le amicizie sconosciute internettiane) che mi vedevano fissa col naso dentro la cassetta della posta o seduta sulle scale in attesa del postino per poter aprire una nuova invitante busta. All'epoca la gente la si raccattava su Topolino, e fra questa ebbi anche il mio bel maniaco maggiorenne olandese che mi voleva mandare le sue foto ignudo. Niente di nuovo sull'internet. Ma chi si è fatta aspettare stavolta sono io: è una casella in cui ricevo soprattutto spam, proposte per dare una smossa alla mia stagnante vita di coppia, premi da ritirare, convenientissime assicurazioni e via dicendo, sicchè erano alcuni giorni che non entravo a controllare.
Non sono cattolica, ma leggere della statua della Madonna usata come legna da ardere mi ha dato un brivido. Non credo che nel mio caso il sacro prevalga sull'opera d'arte -non ho molecole residue di idolatria- ma mi dà comunque pena. Non ho avuto questa fortuna di stare in mezzo alle cose antiche, mi sarebbe piaciuto molto. Tempo fa sono entrata in una casa appena acquistata da una mia conoscente. Era chiusa da decenni e lungi dall'essere ancora ristrutturata. C'erano rimaste poche tracce di vita di qualcuno che ci aveva vissuto prima che finisse nel limbo: un armadio degli anni che furono, immaginette sacre cupe, una statua della madonna messa in alto in un angolo, non certo antica ma piuttosto anziana, un disegno fatto a matita sul muro, di cui non ricordo più il soggetto, che fra tutte era la cosa più straniante, perchè era la cosa più viva, e nel contempo morta, di tutte.
Mi ha anche fatto venire in mente un vecchissimo discorso con un amico che ora non c'è più, che raccontava di cassapanche intagliate & Co. sostituite nei floridi anni '70 con fiammanti mobili in formica, in certe realtà di paese a cui lui era più vicino. Niente a che vedere con la statuaria, sia chiaro, ma come spirito siamo lì. Una confusione tra antico e vecchio. Tra prezioso e ingombro.
Mi ha anche ricordato una persona con cui mi intrecciai svariati anni fa, che mi disse di aver avuto una visione della Madonna, una volta, cosa che non indagai oltre a questa affermazione. Mi spediva bellissime cartoline lenticolari a soggetto sacro.
E infine mi ha rammentato un mio vecchio lavoro, appunto tra quelli di cui ho scansionato le foto cui ho fatto cenno nella scorsa lettera. Se non vado errando è del '97, nel contesto di un episodio di sculture itineranti. Costruii una "Santa, Vergine e Martire", di cui però non ho nessuna immagine che la ritragga indossata,  che mi valse gli insulti di una signora che animatamente  disse che non si prendeva in giro Gesù, e poi si scusò, ma credo solo per lo spavento di aver sentito una voce provenire da quella che sembrava una statua inanimata, e in seguito guadagnai svariate altre palpate -non escluso il fondoschiena- da persone che volevano sincerarsi se fosse vera o finta quando dovetti stare ferma per un tempo che mi parve interminabile. Ma il momento più surreale fu quando un musicista colombiano, in una parata all together, si avvicinò a succhiare le tettarelle. Dalla foto che ti invio si vede e si intuisce poco: era una sorta di torace apribile a mobiletto, con dentro una serie di eventuali reliquie insieme a un vezzoso e pizzoso utero. Si indossava tramite una sorta di imbracatura, aveva un paio di braccia addizionali aperte e accoglienti, e uno schermo bucherellato a coprire la faccia. Un vestito avvolgeva il corpo. Trascinava un trono su ruote ricavato dalla poltroncina di un vecchio seggiolone per bambini e non ricordo più cos'altro, a parte che ci avevo sistemato una decorazione a coronare il tutto con tanto di vegetazione secca e sonaglino per bebè. L'insieme era bianco e oro, se ben ricordo. Come puoi immaginare, anche questo è andato perduto. Il torace si è spostato un po' qua e un po' là, finchè è finito anche sotto la pioggia e si è marcito. L'ultima cosa che resisteva era la decorazione, piuttosto ingombrante, di cui mi sono liberata quasi un anno fa, senza rifletterci più.

Credo che stia riprendendo a piovere,
a presto.
G.

Giulia Sini, Santa, Vergine e Martire, 1997, scultura indossabile, materiali vari (legno, cartapesta, gesso, stoffa). Corredo: trono trascinabile (disperso)

Lettere:
Corrispondenze - Giulia Sini 16/12/14

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lunedì 22 dicembre 2014

Corrispondenze - Stefano Serusi 22/12/14

Caro Stefano,
guardando “Caro a Nettuno” non ho pensato a Moretti, tanto meno ad un’interno. Il gioco di arcate mi faceva venire in mente tutt’altra sequenza. In realtà, le tue informazioni con il riferimento all’uovo massonico hanno chiarito ogni cosa.
Ti confesso che luoghi come la casa di Muti mi provocano un senso di claustrofobia e un certo patetitismo verso l’immaginario da cinema popolare, fatto di divi e dive all’amatriciana. Il pubblico che diventa privato, lo scippo di un’immaginario ad uso e consumo personale, mi da i brividi.
A proposito di architettura e artisti, l’ultima settimana di novembre mi sono casualmente imbattuta nella riapertura al pubblico, dopo un lunghissimo restauro, di Villa Argentina a Viareggio, e ho scoperto esserci delle tele di Biasi.
Nel salone interno al piano terreno è presente un grande trittico dipinto su tela: la tela più grande riveste un'intera parete, le altre sono alternate a specchi e ad una decorazione a stucco dorata che occupa pareti e soffitto. La tela principale raffigura un “Matrimonio persiano”. I dipinti sono presumibilmente del 1930, realizzati per i conti di Sant'Elia, allora proprietari. L’azione scenica si focalizza sul corteo nuziale che segue gli sposi seduti sul palanchino dell'elefante. I cortei nuziali erano un vero motivo ricorrente!
C’era tantissima gente, era veramente difficile fare una foto dignitosa con la mia macchinetta. Purtroppo le foto non rendono bene l’idea. Sono tornata la settimana scorsa, sperando di scattare qualche foto decente, ma avevano chiuso il cancelletto e posto dei dissuasori sulle soglie. Non potendo più accedere al salone, non ho avuto molta scelta nelle inquadrature, oltretutto, hanno sistemato delle torri luminose, che creano un orribile effetto flash. Ti mando quindi una foto trovata su internet.
Sono riuscita, però, a fotografare in maniera un po’ più decente la tela dell’ingresso che raffigura un gruppo di ragazze, probabilmente una scena precedente al corteo nuziale, una sorta di addio al nubilato.
Seguendo la logica sequenza dell’impianto iconografico generale, questa tela dovrebbe raffigurare la promessa sposa con le damigelle. La bimba con il gatto mi ha ricordato la Germana Lonati, la tempera del 1923, della collezione Regione Sardegna.
Mi dirai, cosa c’entra tutto questo con me?
Leggendo del tuo riferimento a Moretti, mi è tornato in mente che avevo appena visitato Villa Argentina e ho associato le cose. E poi, mi pare di ricordare che qualche anno fa hai realizzato un progetto su Biasi, un libro didattico.
In realtà le cose che so del tuo lavoro attuale sono poche, come vedi faccio spesso riferimento a mostre o situazioni che ti legano alla Sardegna, mi farebbe piacere sapere di più sulla tua attività milanese, di cui non so assolutamente nulla, magari nella prossima lettera potresti raccontarmi qualcosa.
La prossima settimana lascerò il blog in stand by. Riprenderò a occuparmene dopo Natale.

Ti auguro, quindi, buone feste.

Giuseppe Biasi, Matrimonio Persiano, 1930, dipinto su tela,
Villa Argentina, Viareggio.
L'impianto decorativo del salone delle feste,
arabeschi in stucco dorati e specchi sono di Galileo Chini

Giuseppe Biasi, , Matrimoni persiano, 1930, dipinto su tela, dettaglio.
Villa Argentina, Viareggio


Ciao Anna Rita, ricambio subito gli auguri!
Dei site specific di Biasi mi piace molto il lavoro alla stazione ferroviaria di Tempio, il modo in cui i dipinti sono tagliati per seguire porte e finestre... Mi fa pensare alla Maestà di Lippo Memmi, a San Gimignano, attraversata da due porte, la definirei una sublime domesticità. In effetti la Maestà e la stazione tempiese oltre ai tagli hanno in comune anche il tipo di rivestimento delle pareti.

Milano è una città che ha molte identità date anche dalla volontà di architetti diversi di imprimere in modo incisivo uno stile di vita a volte quasi opposto al precedente, di conseguenza sono molti gli stimoli formali e culturali. Alcuni temi sono quindi entrati naturalmente nella mia ricerca, tra tutti quello del lavoro e il suo naturale conflitto con la sfera privata. Questi temi li ho sviluppati principalmente nel biennio 2012/2013, a partire dalla mostra a Villa Litta, nella quale con due interventi minimi ho reso lo svolgersi negli anni della vita di una famiglia, trasformando la cappella affrescata in ambiente di studio e usando il camino monumentale come supporto informale per alcuni ritratti di cani che ho "commissionato" ad amici artisti, come fossero gli animali domestici succedutisi negli anni, creando quindi un rapporto con il parco. Il giardino romantico ha perso nelle vicissitudini storiche la sua forma, per essere oggi un vasto prato all'inglese con pochi alberi maestosi. In un progetto successivo ho immaginato di evocarne la forma e le tappe, con una serie di elementi che costituiscono un elenco freddo delle parti che avrebbero potuto comporlo, dal gazebo alla grotta artificiale, contrapponendo alla distanza dell'inventario il calore e l'emozione che potevano suscitare questi luoghi d'incontro. 
Dopo questa serie di opere dedicate alla "villa", ho realizzato una mostra che racconta uno spazio di lavoro, ed aveva come sede The workbench, a Milano, un ex laboratorio orafo convertito all'arte contemporanea mantenendo alcuni macchinari. Ho scelto di rappresentare quel momento della giornata in cui l'attività si ferma e le persone, fisicamente sollevate, possono ritornare alle aspirazioni e al sogno. 
A questo tema, soprattutto nei suoi tratti umanistici, sono tornato da qualche settimana. In uno dei quaderni di Gramsci, il numero 13, quello sul Principe di Machiavelli, la possibilità di trasformare se stessi e il mondo con consapevolezza e forza mitopoietica investe con particolare energia il lettore. Sto lavorando ad un progetto in cui in una chiave romantica un ragazzo è trasfigurato - o spera di esserlo - dalla lettura di questo quaderno. 

Alfredo Jaar, che a Gramsci ha dedicato tanta parte della sua produzione, ha detto che L'arte cambia il mondo una persona alla volta, ed io di entrambi mi fido molto.

Stefano Serusi. Parte della famiglia, 2012. Particolare dell'installazione

Stefano Serusi. Piano di Scrittura, 2012. Ottone dorato, granito verde, onice turco, cm. 83,5x80x170

Stefano Serusi. Gazebo, 2012. Legno, raccordi metallici, cm. 190x167x18,5

Stefano Serusi. Grotta artificiale, Parterre geometrico, False rovine, Laghetto artificiale, Giardino d'inverno, 2012. Legno, stampe applicate, 5 elementi da cm. 39x130x4




Dove trovare Stefano Serusi:
http://stefanoserusi.blogspot.it/

Lettere:
Corrispondenze- Stefano Serusi 01/12/2014
Corrispondenze - Stefano Serusi 07/12/2014
Corrispondenze - Stefano Serusi 11/12/14
Corrispondenze - Stefano Serusi 14/12/14
Corrispondenze- Stefano Serusi 02/01/2015
Corrispondenze - Stefano Serusi 07/02/2015


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CONTEMPORANEAMENTE, 10  Giornata del Contemporaneo, 2014




martedì 16 dicembre 2014

Corrispondenze - Giulia Sini 16/12/2014

Ciao Giulia,
ho pensato e ripensato e, sono giunta alla conclusione che l’intervista non ti si addice, non in questo momento. Mi fa piacere che per altri motivi, sia giunta alla stessa conclusione.
Quando qualche mese fa, durante la preparazione di CONTEMPORANEAMENTE ci siamo scambiate delle mail, avrei voluto pubblicarle. Il contenuto privato, come giustamente mi hai sottolineato tu, me lo ha impedito. Ma c’era in quelle lettere la matassa di argomenti di cui avrei voluto parlare con te.
Ti chiedo di ripartire da lì.
Dopo la Giornata del contemporaneo ho pensato che si potesse posticipare questa nostra corrispondenza, in realtà non è più possibile. Ho preso coscienza di questo fatto proprio grazie al carteggio con Stefano.
 La circostanza che ti ha condotto a buttare letteralmente nella spazzatura alcuni tuoi vecchi lavori, perchè avevi difficoltà a conservarli, mi ha fatto accapponare la pelle, ma ti devo dire la verità, è una questione, questa, che conosco molto bene e mi interessa. 
Con Josephine ho spesso affrontato il discorso della <<inesorabile impossibilità di conservare "i prodotti">>- come dici tu – e sento un’affinità in quello che dici nel passaggio al digitale, all’impalpabile.
Tu, che ti dici esperta in preamboli, raccontami della tua idea di impermanenza.
“Quest'inverno ho salutato i bambini di Zoona, avevano compiuto 14 anni ed erano già morti da tempo dentro la plastica che li proteggeva. Conservo i loro grembiulini neri e ogni tanto guardo affettuosamente le loro foto.”
E’ un frammento di testo che abbiamo esposto in CONTEMPORANEAMENTE.
Posso chiederti di ripartire da qui?
A R



Cara Anna Rita,
è quell'ora della domenica notte in cui tutti sembrano essere scomparsi, ingoiati dalla luce conica di una navicella aliena, uno per uno, ed io sono l'unica ad essere rimasta. Di norma questo però non accade negli altri giorni della settimana. Abito in una zona vivace, traversata anche a sorpresa, nottetempo, da personaggi canterini e ululanti. Osservo senza guardare, con le orecchie, ascolto e immagino come possono essere questi signori che ruzzolano la loro gioia giù per la via. Ma ora tutto tace.
Ho passato gran parte della giornata a risistemare vecchie foto di vecchi lavori che ho scansionato da poco. Uno dei vantaggi delle odierne macchinette digitali è che poi non ti ritrovi immagini pelose o graffiate da ritoccare certosinamente. Dopo un bel po' di certosineggiamento ne avevo però abbastanza (in specie abbastanza mal di testa) e ho perciò accettato il fatto che in fondo quelle irregolarità avevano la loro ragion d'essere: la natura di quelle foto era di portarsi appresso la polvere delle scatole in cui sono state conservate, di tutte le volte che sono state aperte e guardate, di tutti i traslochi e dei cambiamenti di vita, del loro essere bagaglio. Anche quella luce giallastra di luoghi imperfetti in cui ho esposto (vieppiù scantinati, a ben pensarci) che un tempo era importante correggere, mi è parso invece giusto lasciarla così. Calda, sporca. Più che l'estetica linda della documentazione, ha prevalso il bisogno dell'autenticità del ricordo diretto di quelle atmosfere. Sarò nostalgica, oggi. Mah. E' che è da un po' che ho rimesso mano nel mio passato, mesi, quasi un anno, e non mi si sono ancora formate le parole in testa davanti a quello che sto rimestando.
Tra queste foto scansionate, comunque, c'erano anche i bambini di Zoona e gli sposini di Ippippurra, nel loro momento vitale. Gente dell'anno 2000. Ho notato che fare delle foto serie di una mostra non è mai stata una mia necessità primaria. Forse anche perchè non ho particolare occhio per fotografare gli ambienti. Insomma, quelle dell'esposizione di Ippippurra (con l'accento sulla u) sono davvero delle brutte foto. Per Zoona invece ho un affetto speciale, perchè all'epoca avevo potuto disporre di un ingranditore in bianco e nero. Amo la camera oscura. Amo stampare. Amo la grana della carta fotografica. Se fosse commestibile la mangerei. Sicchè qualche foto l'avevo stampata da me. Quando le guardo mi viene voglia di carezzarli, gli zooni, come vecchi amici d'infanzia (le mie foto da bambina sono ancora in bianco e nero). L'ultima foto di uno di loro risale allo scorso inverno: ci sono anche io. Lo sto sezionando per il suo ultimo viaggio. Sempre quest'inverno ho immortalato ("immortale" è una parola grossa in digitalese) gli ultimi struggenti sguardi degli sposini di Ippippurra. Si sono dovuti dire addio anche loro, un addio polveroso e friabile, dopo esser stati sempre appiccicati dal 2000. Le ho riprese per farti un piccolo collage del before/after da allegarti. A riguardarle dopo qualche mese da quei giorni infausti, trovo in entrambi gli episodi una crudeltà che non mi appartiene, fredda e rassegnata.

Ecco le une:

Zoona, 2000, cartapesta dipinta, grembiuli i neri, dimensione ambiente.
Ecco le altre:

Ippippurra, cartapesta dipinta, abiti, dimensione ambiente
Per la cronaca, quella dell'epoca è la più grande in alto a sinistra. Le altre piccole sono di quando ho fatto la voyeur travestita da psicopompo.
So di non avere risposto che superficialmente al tuo invito a discorrere di impermanenza, ma questa è solo la prima di una serie di lettere, abbiamo tempo.
G.


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lunedì 15 dicembre 2014

Conversazione con Marcello Scalas/ artista e designer - Tematiche ambientali

A.R.C. Quali tuoi lavori affrontano tematiche ambientali? Quando hai iniziato ad occupartene?
M.S. Avevo realizzato un lavoro dal titolo “Copyright” di un metro per un metro, che doveva essere inviato in Giappone a Kyoto per il summit sul tema dell’acqua. Era il 2001. Consisteva nella parola “acqua”, scritta in cerchio. Il lavoro risultava un po’ ambiguo perché man mano le lettere che componevano la parola “acqua” si disintegravano e si perdevano nella superficie bianca del pannello. L’ultima lettera rimaneva la “c” che si trasformava nel simboletto del copyright ©. L’espansione della goccia aveva un risvolto negativo. Sempre sul tema dell’acqua avevo fatto un altro lavoro “Souvenir”, esposto in uno spazio espositivo che gestivo io: Il Buco.

A.R.C. In cosa consisteva?
Souvenir, 2009, installazione, 192 bottiglie,
foto G.Flore
M.S. Lo spazio era una vetrina. L’installazione consisteva in 192 bottiglie, quanti sono gli stati del mondo. Essendo questo spazio una vetrina ho lavorato come con il merchandising cioè come sistemare la merce in una vetrina. In vetrina la merce non è mai disordinata, queste bottiglie sembravano soldatini in parata militare. Dal punto di vista visivo era un lavoro “carino”, esteticamente colorato.

A.R.C. Come deve essere un prodotto!
M.S. Appunto. Queste 192 bottiglie contenevano dell’acqua, avevano una cannuccia e una bandierina per ogni paese. Siccome mi interessa rallentare i tempi di percezione, soffermarmi su un’ opera d’arte, avevo messo dietro ogni bottiglia il simbolo del copyright, un adesivo che si vedeva al contrario e per riflesso. Quindi solo chi ha avuto attenzione lo ha notato.

Il rifiuto di Jean Marie Pelt, 2009,
installazione, dimensione ambiente
A.R.C. Che anno era?
M.S. Il 2009. Sempre dello stesso anno è “Il rifiuto di Jean Marie Pelt”, realizzato in un altro negozio, in uno spazio 3mx3m. 
Un negozio che aveva una grande vetrina che ho immaginato come una serra. Siccome lavoro con i materiali di recupero ho un po’ giocato con le assonanze: il “rifiuto” in quanto materiale di scarto, avanzi di lampadari, tubi, pompe.
L’occasione è stato un libro, il primo best seller di un ecologista francese tale Jean Marie Pelt che per la prima volta trattava degli organismi modificati geneticamente. Erano dei fiori mostruosi, anche loro sistemati in maniera simmetrica come potrebbero essere le monocolture.
Questa vetrina sembrava una serra dove nessuno poteva entrare. Per questa installazione il negozio era chiuso. Si poteva vedere soltanto da fuori. Al centro lampeggiava una luce verde, anche se il verde poteva far pensare ad una condizione naturale, il lampeggiare fa sempre pensare ad uno stato d’allarme e di fastidio. Anche questo è un aspetto che mi interessa, le insegne luminose. Sarà retaggio di alcuni film di fantascienza “Blade Runner” dove c’erano sempre delle luci ad intermittenza.

l rifiuto di Jean Marie Pelt, 2009,
installazione, dimensione ambiente
A.R.C. Curioso che alcuni dei tuoi lavori appaiano in una condizione di privazione, separati dal pubblico da una vetrina, una barriera. C’è la totale impossibilità per lo spettatore ad avere un qual si voglia contatto, entrare e muoversi attorno al lavoro. Poi ci sono tuoi lavori che esplicitamente invitano alla condivisione, nei quali la partecipazione attiva del pubblico è fondamentale. A Molineddu con “Che piacere averti qui” hai condiviso l’opera non solo con il pubblico ma anche con gli animali del giardino, e di recente è accaduto anche con “Il giardino delle delizie”... una condivisione totale, anche con le galline!

Che piacere averti qui, 2001, dettaglio


M.S. Se anche la natura apprezza il tuo lavoro non è male! (ah ah ah)
Ci dev'essere anche una condivisione materica, di contaminazione. In quel caso lì, ho contaminato uno spazio e la natura ha contaminato completamente il mio lavoro. Il lavoro consisteva in 150 sediette realizzate con zollette di zucchero.

Che piacere averti qui, 2011, installazione, 150 sedie di zucchero,
Molineddu, Ossi, (SS)



A.R.C. All’opposto de “Il rifiuto di Jean Marie Pelt”?
M.S. Dipende. Quando ho fatto questi lavori legati a tematiche ambientali, pensavo a noi che veniamo continuamente esclusi da determinate cose. “Souvenir “e “Il rifiuto di Jean Marie Pelt” incarnano questa separazione. E’ come vedere una sperimentazione in laboratorio. Ad esempio a me la teca mi impressiona, vedere le cose attraverso una teca mi impressiona. C’è un' entità ancora più grande di te là dietro che gestisce quella cosa lì e tu non puoi intervenire, ti è precluso l’intervento. Come singoli siamo impotenti. Questo senso di impotenza è molto forte nella società di oggi.

A.R.C.In questo momento hai dei nuovi progetti? A cosa stai lavorando?

Sa Die, 2014, installazione, dimensione ambiente,
ex Mercato Civico, Sassari
M.S. Da poco ho fatto un lavoro al vecchio Mercato Civico di Sassari, legato ad una data che celebra la liberazione dei sardi dai piemontesi, dove ho cercato di svelare ciò che la storia locale tiene nascosto, perché ovviamente si tende a voler celebrare gli eroi, che nascondono sempre un non detto.
Mi è piaciuto intervenire in un luogo dismesso con qualcosa che ricorda il modo di esporre le opere d’arte nei vecchi musei.
Mi dispiace quando non si bada a certi aspetti. L’estetica del bello mi interessa. Sarà perché lavoro nella scenografia, nel design, della decorazione d’interni e ho a che fare con queste tematiche. L’escluderlo completamente dai miei lavori di ricerca nelle arti visive mi dispiacerebbe molto.
Sto sempre molto attento alla forma e all’estetica del lavoro. Per me è importante il rapporto con le superfici.

A.R.C. Quel lavoro ha un forte interesse verso il bello, non tanto a livello di piacevolezza ma per come è stato progettato e per come era proposto: all’interno di uno spazio oramai chiuso - perché Sassari ha un nuovo mercato- innalzando un spazio degradato a sala museale lussuosa. Raccontami di questo progetto.
Sa Die, 2014, installazione,dettaglio,
ex Mercato Civico, Sassari
M.S. Pensavo di realizzare una serie di lavori legati sempre ad uno svelare la realtà altra di una storia raccontata secondo un determinato schema o prospettiva. In questo caso la storia non è stata raccontata dal potere, ma dai vinti, il lavoro si intitola infatti “Sa Die”. La storia racconta di un’occasione persa.
Quindi mi interessa intervenire o in luoghi dismessi o in luoghi apparentemente brutti con un frammento di bellezza, lavorando anche sul colore.
Per “Sa Die” il colore di fondo era un rosso porpora, come forti sono i colori dei musei ottocenteschi.

A.R.C. Possiamo dire che oggi i tuoi progetti vanno in questa direzione?

 M.S. E’ difficile dire in che direzione vanno i miei progetti.

Quando si lavora in diversi campi come nel mio caso: un intervento decorativo all’interno di un negozio mi può dare l’imput di una installazione, di un libro d’arte, un disegno.
Se non buttassi giù due righe ogni vota che mi viene un’idea  vivrei nel caos più totale.
Quando lavoro ad una scenografia confrontarmi con un regista di teatro che mi dà altro, il nuovo, succede il corto circuito. Non posso chiudermi. Tutto determina nuove cose.
I temi di fondo dei miei lavori sono comunque sempre gli stessi: tematiche ambientali, la comunicazione, tematiche universali. L’uomo c’è sempre, anche quando raffiguro animali. Sono sempre antropomorfi, tranne nel "Giardino delle delizie", nel quale mi interessava mettere in evidenza lo scontro uomo-animale.
Sono stato invitato in un luogo dove il proprietario utilizza le pelli dei conigli, delle pecore, le zampette degli agnelli per fare i suoi lavori, e io ho realizzato una cinquantina di sagome, di stencil  realizzati con zucchero a velo. 
Giardino delle delizie, 2014,
50 stencil, zucchero a velo,
Molineddu, Ossi, (SS)
Anche in quel caso lì, come per “Che piacere averti qui” è stato consumato dagli animali. Come dire: l’anima di questi animali è durata davvero pochissimo. Anche in questo caso la dimensione è favolistica, legata all’infanzia.
Nel caso di “Che piacere averti qui” il lavoro era un vero dialogo dell’uomo con la natura, dell’artista con la natura, perché esporre in una campagna ha dei rischi. Puoi scadere nel monumento, in qualcosa che cerca di concentrare tutto su di sé. Ho quindi cercato di rompere questo atteggiamento con le ridotte dimensioni e una quantità elevata di pezzi, in varie situazioni, ogni angolo è buono per sederti.
C’è stata come la rivincita della natura.



 A.R.C


Dove trovare Marcello Scalas:

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domenica 14 dicembre 2014

Corrispondenze - Stefano Serusi 14/12/14

Carissimo Stefano,
volevo fare la spiritosa e ho raccolto uno schiaffo da maestrale. Bellissimo!
Non ricordavo avessi fatto una tesi su Courbet. Ora che ci penso, alcuni dei tuoi primi lavori sono una colazione sull’erba e un tè (nel deserto) dentro una tenda militare. Scusa se non ricordo i titoli. Le marine però non le avevo prese in considerazione.
Rispetto ad allora, i lavori recenti mi sembra abbiano raggiunto una sintesi minimalista più evidente, meno tendenti al narrativo. Non c’è un coinvolgimento ammiccante e il più delle volte il loro senso più profondo sfugge.
Siccome, non ti ho mai chiesto esplicitamente di cosa ti stai occupando in questo momento, raccontami dell’ultimo lavoro esposto. E’ “Caro a Nettuno”, se non sbaglio.
Nella mia testa aleggiano una serie di rimandi estetici precisi: quello più evidente è Piero della Francesca nella “Pala di Brera”. Del resto, tu stesso sottolinei questa relazione nel tuo blog, con la pubblicazione di una foto del frontespizio di un volume monografico della Jaka Book- però non nego di intravedere anche riferimenti all’architettura proto-razionalista di Piacentini. Mi sembra evidente nella sequenza degli archi di panno nero, che determinano uno spazio altro in “Caro a Nettuno”, così come in ”Edificio Dantesco”. In “Palazzo romano e Lamborghini” è palese.
Piacentini, sarà per gli archi è quello che salta più agli occhi, ma trovo un tuo preciso interesse verso l’architettura pro-razionalista, quella degli elementi architettonici classici: la colonna, l’architrave, la volta e sopratutto l’arco. Aspetti del classico e dei classicismi in tutte le loro manifestazioni plastiche.
E sempre, se non sbaglio -per passare ad un’altra curiosità- non è il primo lavoro nel quale utilizzi come elemento una pietra grezza. Un paio di anni fa a Berchidda hai esposto un lavoro che aveva a che fare con Santa Barbara e il sasso era l’elemento principale dell’opera.
Mi racconti un po’ di questi percorsi?
Guarda, cosa ho trovato! Scommetto che non la ricordavi? Marzo 2009.

Marzo 2009 (foto Josephine Sassu)

Ciao Anna Rita,
ti ringrazio per la fotografia, è bello sapere che l'hai tenuta con te. Eravamo nello spazio del Palazzo della Provincia di Sassari dove c'è la collezione d'arte composta con partecipazione e lungimiranza da Pietrino Soddu durante la sua presidenza.
Mi piace in questa tua ultima lettera riscoprire l'attitudine a trovare i nessi, ultimamente ai curatori devo sempre dichiararli da subito, è raro trovare un'autentica capacità di indagine. Forse l'arte contemporanea pecca di ruotare intorno a poche parole chiave, senza attingere altrove che da se stessa...
I collegamenti quindi che hai già anticipato semplificano la risposta.

Cerco di guardare con lucidità quanto ho fatto in anni di ricerca, e reputo opportuno ritornare a dei concetti, dei modi e dei materiali che necessitano di un approfondimento o di richiami. Per me l'idea di un percorso è basilare, analizzo gli spazi pensando sempre con quale percorso il pubblico vedrà le opere, che è lo stesso percorso attraverso cui un ideale personaggio, scelto a simbolo nella mostra, ha osservato e usato le cose rimaste come traccia. Questo approccio è sicuramente legato all'avere iniziato con la performance, la centralità di una figura in movimento è la stessa che è poi diventata immagine fotografica, qualche volta una fotografia trovata, con un personaggio sconosciuto di cui ho voluto immaginare un cammino, in un paesaggio, in un'architettura o interiore.
Per me il percorso nel paesaggio è legato alla solitudine, immagino una persona abbandonata che osserva dal basso vette sublimi o scogliere irraggiungibili. Al contrario vedo nell'architettura un senso di accoglienza e, nella cultura che racconta, la base di una spiritualità laica.
La serie di opere in cui ho usato gli archi, che sono ovviamente dei percorsi, come è più palese in Caro a Nettuno, nascono dalla rilettura dei Principi architettonici di Wittkower e, come hai intuito, da un certo clima razionalista che conserva-va, come diceva Zevi, un po' di D'annunzio nel compasso. Non tanto Piacentini, piuttosto il Luigi Moretti che aveva realizzato un appartamento per il gerarca Ettore Muti nelle mura aureliane, un'alcova improbabile suddivisa da archi romani veri e tende da cinema muto (Muti-muto, non ci avevo pensato).
La pietra sospesa viene dal mare, è un elemento simbolico di tradizione massonica che allude ad una forma che aspira al miglioramento (che si contrappone alla forma pura della pietra levigata e dell'uovo). L'osservazione di questo elemento, incorniciato da un percorso tra gli archi che simula l'oscurità di una grotta, definisce un luogo sacro, d'ispirazione e rigenerazione (come è chiaramente il mare).
Barbara nella folla, l'altra opera che citi, è un mattone avvolto in un foulard, un'arma che ho immaginato scagliata da una donna in segno di protesta, una donna che si discosta dalla folla, e che ha un nome e un elemento che racconta la sua femminilità non avvilita dal lavoro. Credo crei una forte contrasto con il sasso di Caro a Nettuno, da una parte Milano, la coscienza di classe, l'autodeterminazione, dall'altra Alghero con il mare, il mito, la contemplazione... si possono unire questi caratteri per una società migliore?


Stefano Serusi. Barbara nella folla, 2012. Terracotta, seta, cm. 15x11,5x6.

Stefano Serusi. Loisir, 2013.  Veduta della mostra presso The Worbench, Milano



venerdì 12 dicembre 2014

Conversazione con Marcello Scalas/ artista e designer - La superficie e lo spazio


Yo yo, 2011,"In fila per due",
2600 barchette di carta, 12m2,
Libreria internazionale Koinè,
Porto Torres


A.R.C. Nella scorsa intervista ci siamo soffermati sul tuo lavoro di designer: allestimenti scenici e complementi d’arredo che realizzi principalmente con materiali di recupero.
Ho tralasciato volutamente di parlare del tuo lavoro di ricerca nelle arti visive perchè mi interessava dedicargli il giusto tempo.
Vorrei parlare con te del rapporto che instauri con lo spazio. Da quale lavoro vuoi iniziare?
M.S. Forse, dalla stanza di zucchero che ho realizzato a Berchidda per la mostra "Babelfish". Lo zucchero è un materiale che utilizzo e che ho imparato a conoscere. All’inizio lo utilizzavo principalmente sulle superfici dei quadri. Poi di ogni materiale ti informi e ti accorgi che ci sono tante cose che ti può raccontare. Uno degli aspetti che mi aveva interessato è il fatto che essendo un cristallo -secondo Boncinelli, un genetista napoletano, simpaticissimo- è un elemento di passaggio tra materia inerte e materia vivente.
Mi interessava questo elemento che mette in relazione qualcosa come le pietre (per semplificare) con noi stessi, con gli animali. Perchè il cristallo fondamentalmente si riproduce. Ci impiega un po’ di tempo a riprodursi, però ricostruisce.

Casa, dolce casa, "Babelfish", 2003,
"Time in Jazz", Berchidda, (OT)
A.R.C. Come si intitolava questo lavoro?
M.S. “Casa, dolce casa”. Al tempo ero studente all’Accademia di Belle Arti. Ci era stata data la possibilità di intervenire in una casa privata, si chiamava Casa Pianezzi, al centro del paese. Della famiglia Pianezzi,che ci ha abitato fino ai primi decenni del Novecento, rimanevano davvero poche cose.
Come spesso succede all’Accademia, durante gli studi si forma un gruppo, noi eravamo cinque. C’era Riccardo Fadda degli Az.namusnart, Pinuccia Sini, Dario Caria e Marina Scardacciu. Per un mese ci abbiamo vissuto. Dario Caria era di Berchidda, quindi stavamo a casa sua. Una vera residenza, abbiamo conosciuto il vicinato e ripulito per un mese. Una volta che abbiamo riattato questo posto, completamente distrutto,- un aspetto che interessava molto alcuni degli artisti, tra i quali Riccardo Fadda, che agli inizi lavorava molto sui luoghi dismessi, aveva scelto una stanza e lasciata tale e quale-, ci siamo divisi gli ambienti.

A.R.C. Tu che stanza hai scelto?
M.S. Inizialmente mi stavo interessando alla scala...


A.R.C. In riferimento al tuo nome...
Casa, dolce casa, "Babelfish", 2003,
"Time in Jazz", Berchidda, (OT), dettaglio
M.S. Sì, al mio nome, come un lavoro realizzato di recente... Queste punti di passaggio mi interessano molto.
Però ero rimasto affascinato dalla cucina, perchè era l’unico ambiente in cui c’erano alcune cose appartenute alla famiglia. C’era un piccolo tavolo, un lampadario in ferro smalto, il lavandino con il rubinetto, il caminetto. A quel punto ho deciso di cristallizzare questo ambiente: l’ho rivestito totalmente di zucchero.
Il tema del Time in Jazz di quell’anno era “la parola”. A quel punto era inevitabile affrontare il tema della memoria, la parola e la memoria. Quindi ho ricoperto ogni cosa di zucchero.
Detta da alcuni appariva inquietante, perchè non subito percepivi il calore dello zucchero. Per alcuni il bianco era un po’ ossessivo.
L’ambiente non era molto grande, sarà stato 2m x 3m. Mi interessava agire in maniera delicata rallentando un po’ i tempi. Nel senso che, nel momento in cui ci stavi dentro iniziavi a percepire i colori dello zucchero, che essendo un cristallo a seconda dell’illuminazione rifletteva la luce. Sulle pareti sembravano dei piccoli diamanti.

O noi o io no, 2013, installazione, carta,
dettaglio
A.R.C. La memoria è legata allo zucchero, lo zucchero è il nutrimento del cervello.
M.S. Lo zucchero sotto molti aspetti ha a che fare con l’infanzia, con la memoria, con il cervello, perchè ovviamente gli zuccheri agiscono sul cervello.
Lo vedevo come un materiale molto contemporaneo perchè è un alimento che dà subito energia.
Mi permetteva di creare diversi livelli di lettura. Anche se il lavoro era abbastanza chiaro già dal titolo. Però poteva esser letto in diversi modi e ognuno poteva trovare il proprio modo di interpretare questa superficie.
A me piace intervenire sulle superfici e questo sicuramente si collega al mio lavoro di decoratore d’interni.
Quindi non solo belle superfici su cui posare l’occhio per un po’, superfici che sono la pelle di qualche cosa.
Mi interessava intervenire dal punto di vista percettivo nello spazio.



O noi o io no, 2013, installazione, carta,
dimensione ambiente,"Le fondamenta degli incurabili",
Show room Liceo Artistico,
Sassari, Foto G. Calia
A.R.C. Prima si parlava di scale e superfici. Di recente hai ricoperto completamente l’interno di una scala con un’altro tipo di materiale, che ultimamente hai utilizzato in altri interventi spaziali: la carta. Non è viva come lo zucchero ma ha un’altro tipo di vitalità, legata alla cultura, alla manifattura.
M.S. Mi interessava intervenire dal punto di vista percettivo nello spazio.

Il lavoro era la fase finale di un work shop tenuto con i ragazzi del liceo artistico. Mi interessava modificare completamente la percezione di quello spazio. Mi interessava come punto di passaggio di noi che esponevamo nello show room Le fondamenta degli incurabili, al piano terra, e i ragazzi della scuola che stavano al di là di questo spazio, nelle aule al piano superiore. Le persone che passavano all’interno del vano percepivano uno spazio altro, non solo ovviamente per una questione tattile, volevo anche condizionare l’udito, dal momento che una volta che ci si camminava all’interno, vuoi per i passi, vuoi per le voci, tutto veniva modificato. Questo permetteva a chi arrivava al piano superiore di questionarsi su altro, oppure provare un senso di disagio, che non avrebbe avuto salendo la scala prima del mio intervento.

Yo yo, 2011,"In fila per due",
2600 barchette di carta, 12m2,
Libreria internazionale Koinè,
Porto Torres

A.R.C. Non lo abbiamo detto, ma questa scala è molto stretta a forma di elle e unisce lo scantinato con i piani superiori della scuola.
M.S. Uno spazio ampio non avrebbe certo raccontato la stessa favola. Del resto anche Alice nel paese delle meraviglie trovava le sue porticine piccoline e si doveva adeguare. Quindi sono sempre apparentemente luoghi stretti e angusti quelli che ti portano verso un’altra dimensione, questo nella dimensione favolistica.
Io inserisco spesso nei miei lavori questa dimensione favolistica.

Copyrigth, 2001,
mdf, zucchero, 1mx1m
A.R.C. Scrivi moltissimo. In generale nei tuoi lavori utilizzi spesso la dimensione narrativa e la parola, non solo le immagini e lo spazio.
M.S. In parte il tema della narrazione era tipico dei miei primi lavori fatti con lo zucchero, prima che ci intervenissi con le installazioni, sui quali io scrivevo a caratteri tipografici con lo zucchero. Sempre perchè pensavo al sassolino gettato nello stagno, pensavo a cosa poteva fare il racconto nella memoria.
Tanto che i primi lavori consistevano in cerchi dai quali si irradiavano delle parole. Poi sono entrate le tematiche ambientali, che sono state abbastanza frequenti nei miei lavori. Continua...

A.R.C.

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