il tuo riferimento al pubblico, nella scorsa lettera, mi ha dato da riflettere.
In realtà non ho mai pensato che gli artisti, esclusi quelli
riconoscibili come Pop Star, avessero un pubblico. Un pubblico come quello che
va a vedere gli spettacoli, i concerti, quello pagante.
Il lavoro di un’artista plastico-visivo è seguito veramente da pochissimi.
Questi pochissimi sono in realtà altri artisti, qualcosa che non riesco a
definire come “il pubblico”. Sono artisti che si pongono come occhio critico e cerniera
verso l’esterno. Uno è il diaframma dell’altro, un esterno che forse diventerà
pubblico, forse no, sono gli artisti, i collezionisti, i critici, quelli che voglio capire il
mondo attraverso il non verbale. Ma è davvero un pubblico? Lo vogliamo chiamare
così? Il pubblico è quello dei musei: indefinito, eterogeneo, paga il
biglietto. Chi segue un artista nel suo processo creativo non è “il pubblico”.
Il pubblico vuole il pacchetto finito, con il fiocco e tutto, vuole anche
l’etichetta.
Penso che un artista prima di essere musealizzato non ha un pubblico, ma qualcos’altro a cui non so dare un nome. Sostenitori?
Sono sicura di aver tralasciato qualcosa, nell’affermare l’assenza de “il
pubblico” per un artista visivo contemporaneo, di non aver preso in
considerazione forse l’aspetto più caratterizzante il nostro contemporaneo,
cioè quella condizione che permette a giovanissimi talenti di essere
musealizzati alla loro prima mostra, anzi alla loro prima opera. E’ una
leggenda? Non so, sta di fatto che in questo caso, il pubblico c’è, e c’è prima
ancora di avere quel mondo di cerniere e diaframmi che sono gli altri artisti,
gli appassionati, i sostenitori con cui confrontarsi e che permette ad un
artista di fare ricerca.
Ciao Anna Rita,
tocchi un tasto dolente, ma non per me. O
meglio, non eccezionalmente.
Proprio per quanto ti ho detto nell'altra
lettera: per me si tratta di trovare delle affinità.
Ho avuto la fortuna - grande - di avere
quello che si chiama "maestro" (al femminile la parola fa pensare
alle tabelline) in Pinuccia Marras, ed uno dei suoi indiretti insegnamenti è
che l'artista debba costituire anch'egli un pubblico, sviluppare una curiosità
intellettuale verso tutte le forme, dal teatro al cinema, dalla danza
allo sport, e così via. Questo oltre a suggerirmi altri immaginari, ha definito
la mia etica individuale, che non è un'etica corporativa, corrispondente a
parametri stabiliti dallo specifico dell'arte, ma si lega ad un ambito
umanistico più ampio.
Voglio quindi disinnescare il cliché per
cui l'artista debba coinvolgere necessariamente la casalinga o l'operaio (che
tra l'altro secondo gli attuali canoni della partecipazione sarebbero coinvolti
in quanto tali, e non come persone), secondo me il problema di molti operatori
culturali nel settore delle arti visive è - anche - la difficoltà di indagare e
comprendere l'impegno intellettuale degli operatori culturali di altri settori.
Immagino sia una cosa pressoché impossibile accostare l'arte all'architettura,
o alla letteratura, senza immaginare un conflitto. Per l'artista medio
l'architetto, il poeta o il regista sono invariabilmente dei cialtroni.
Ho avuto la fortuna di poter utilizzare il
mio impegno di intervistatore per Cerchio (https://cerchiomagazine.wordpress.com/) per spaziare
dall'arte contemporanea verso quei modi interpretativi del reale che comportano
una precisa presa di posizione sulla società. Non per forza quindi l'artista per
dialogare deve avere la cornice della mostra, o peggio della sua mostra,
come un attore in un teatro vuoto.
Il nostro punto di vista è quindi
differente, capisco cosa vuoi dire rispetto al pubblico, ma per me la mostra
non è quel "pacchetto finito", piuttosto un collegamento tra altre
arti e altre domande. Ma forse anche per te, e mi hai voluto provocare?
Stefano Serusi. Palazzo romano e Lamborghini, 2019. Carta, automobile di vetro, dimensioni variabili |
Stefano Serusi. Palazzo romano e Lamborghini, 2019. Particolare |
Lettere:
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