martedì 2 dicembre 2014

Corrispondenze - Stefano Serusi 01/12/14

Carissimo Stefano,
ogni qual volta guardo un tuo lavoro oppure guardo le foto dei luoghi magnifici che posti su facebook mi assale una sorta di struggimento. C’è nel tuo sguardo sulle cose un intenzionalità verso il possesso delle cose stesse che inevitabilmente provoca in me un senso di perdita. E’ lo stesso smarrimento che vivo al ricordo di questi versi di T.S.Eliot “In the room the women come and go/ Talking of Michelangelo”. Percepisco qualcosa di pieno e importante ma nel momento in cui cerco di fissare l’esperienza della comprensione e del ricordo questa mi sfugge.
Percepisco un’atmosfera, riconosco qualcosa che arriva a me da un luogo lontano ma non ne so ricostruire pienamente il significato e vengo inevitabilmente assalita da un senso di frustrazione: la mancanza di fiato di fronte al desiderio, la continua impossibilità di completare la scena perfetta.
E’ come se tu presentassi qualcosa che sta al confine tra vita reale e immaginario, tra desiderio e appagamento, sul bordo sottilissimo tra possibilità e anelito verso qualcosa di inafferrabile perchè lontano, perchè non più esistente, perchè finito, perchè morto. C’è sempre un vuoto, un desiderio inappagato, un orizzonte sempre troppo lontano.
La mia percezione non si completa. Resta un senso di sospensione e frustrazione che stranamente identifico con il mio appagamento. L’incompletezza mi pare l’unica cosa che abbia veramente un senso.
Mi piacerebbe che mi raccontassi quanto questo senso di frustrazione vissuta dallo spettatore – forse solo da me- è una componente del tuo lavoro. Quanto l’impossibilità vera di possedere la bellezza o presunta tale, o che è stata e non è più, sia parte del tuo progetto creativo.
Ho forse preso un abbaglio?


Ciao Anna Rita,
perdonami ma ho dei problemi ad aprire e modificare i files (uso un pc di fortuna non mio), quindi dovrò usare il corpo della mail per risponderti.
Ti ringrazio per l'attenzione dedicata a ciò che comunico e cerco di comunicare, mi hai fatto pensare che qualcosa che ho sinora teorizzato, senza parlarne apertamente, ha un effettivo valore.
Ultimamente, davanti al plauso delle persone per manifestazioni artistiche spettacolari, ad esempio la danza trasformata in televisione in una sequenza di acrobazie scollegate, ho senso di grave smarrimento, non dissimile del resto da quello che provo sentendo elogiare l'arte del "passato" principalmente per la sua perizia artigianale.
Trovo fondamentale, come artista, pensare a chi compone il pubblico, e del resto vengo da una formazione in cui la mostra intesa come esperienza e confronto ha una sopravvalutazione rispetto all'osservare in uno studio. Il pubblico è un corpo su cui un artista deve lavorare, deve essere capace di comprendere da chi è composto ed infine scegliere a chi comunicare. A me personalmente piacciono quelle persone in cui la vita spirituale e intellettuale predomina sull'azione, che si affezionano e credono negli altri, che non suddividono la vita e le vite in successi e fallimenti. Ho notato - Flaubert insegna - che questi specialissimi marziani vivono in provincia e comunque al di fuori di contesti che permetterebbero l'affermazione piena di personalità come la loro. Per questo mi capita anche di realizzare progetti in spazi e contesti che artisti più seri e professionali riterrebbero impropri: io ambisco a trovare il mio spettatore, quello che poi in fin dei conti può reclamare una proprietà su ciò che faccio.

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