lunedì 16 marzo 2015

Conversazione con Paolo Carta/ artista, presidente di Progetto Contemporaneo

Incontro l’artista Paolo Carta presidente di Progetto Contemporaneo un'associazione di promozione sociale che opera attivamente in Sardegna dal 2011.
Ci sentiamo via skype. Parliamo delle attività dell’Associazione, sopratutto le residenze a partire da Candelieri4Residencies del 2012 al recente PAS_Progetto Atelier Sardegna 
L'idea è di attivare un programma di residenze diffuse, strutturate secondo una rete di atelier, distribuiti su tutto il territorio della Regione, messi a disposizione di artisti italiani e stranieri differenti per background culturale ed ambiti di sperimentazione. Sono residenze low badget, che impegnano la comunità per un tempo lungo. Diversi artisti si alternano nel corso dell’anno, in un progetto di ricerca e restituzione, non necessariamente finalizzato alla produzione di un’opera.
Tra i primi paesi ad aderire è Belvì, paese situato nella Barbagia omonima, sul versante meridionale del Gennargentu.


A.R.C. Raccontami come è nata l’idea di Progetto Contemporaneo. Perché fare
un’associazione culturale?
Barbagia di Belvì
P.C. Tu sai arrivo da altre esperienze. Dopo la formazione, dopo l’Accademia mi sono dedicato alla carriera di artista, in maniere diverse. La mia ricerca è cambiata anche grazie all’ esperienza fatta come operatore.
E’, ed è stato, un percorso difficoltoso: diciamo che ti devi inventare, in un continuo confronto.
Fino al 2013 c’è stata l'esperienza  dello spazio indipendente Meme Arte Contemporanea e prossima, che devo dire mi manca. Ma era una questione di lucidità, dover tenere insieme troppe cose, il lavoro d’artista, lo spazio, altri progetti. 
L’idea di Atelier Sardegna è nato proprio durante l’esperienza del Meme. La maggior parte delle persone non credeva potesse riuscire.
Ad un certo punto abbiamo cercato di stabilire degli obiettivi ed individuare delle strategie che potessero essere più fattibili rispetto ad altri. Si è sviluppato Progetto Contemporaneo, nel quale siamo riusciti a convogliare energie e professionalità, per iniziare un discorso sulle residenze. Quello che stiamo realizzando.
Abbiamo iniziato con le residenze del progetto Candelieri4Residencies, poi siamo arrivati a PAS _ Progetto Atelier Sardegna.

Gabriele Arruzzo, 2012, smalti e acrilico su tela. courtesy Progetto Pontemporaneo, Candelieri4residencies_Dinamiche da un'induzione 
A.R.C. Da chi è composta l'Associazione?
P.C. Stefano Serusi, Cristina Meloni, Pier Paolo Luvoni, Laura Vittoria Cherchi e Giorgio Plaisant. Per la maggior parte siamo artisti.

A.R.C. Raccontami la nascita e gli sviluppi di Progetto Contemporaneo?
P.C. Nasce nel 2011. Abbiamo iniziato da subito con i progetti delle residenza. Il primo è stato Candelieri4Residencies del 2012 attivato tra Sassari, Nulvi, Ploaghe e Iglesias: i luoghi dei Candelieri. Poi, per svariati motivi, l’anno dopo il progetto si è svolto soltanto a Sassari.
L’obiettivo era perseguire la ricerca, creare dei confronti. Qualcosa l’abbiamo anche ottenuta. In quell’ edizione, a supporto degli artisti che avevamo in residenza, avevamo coinvolto alcuni artisti sardi. Gli artisti in residenza erano Helena Hladilova e Namsal Siedlecki (Gum Studio), Gabriele Arruzzo, Silvia Camporesi e Arianna Carossa.
Uno degli artisti locali coinvolti è stato Carlo Spiga. Silvia Camporesi che ha svolto la sua residenza a Ploaghe ha avuto modo di confrontarsi con Carlo Spiga con cui è nata una collaborazione.
La residenza ha raggiunto il suo obiettivo.
Nello stesso anno abbiamo realizzato un Workshop alla Galleria Comunale di Cagliari con l'artista Cristian Chironi, sempre con l’obiettivo di coinvolgere artisti sardi. Gli artisti coinvolti erano Chiara Seghene, Alessandro Sau, Enrico Piras, Claudia Matta, Demelza Spiga, Oscar Piras che in realtà è un cantante lirico e Eleonora Todde che si occupa di architettura e design. Anche in quell’occasione si era creato questo confronto molto dinamico e molto interessante.

Helena Hladilova e Namsal Siedlecki (gum studio),
senza titolo, 2012,
installazione. courtesy Progetto Contemporaneo

Candelieri4residencies_Dinamiche da un'induzione 
A.R.C. L’esperienza Candelieri4Residencies si è ripetuta?
P.C. Sì, la seconda edizione è stata fatta solo a Sassari e c’è stato un cambiamento, un po’ troppo radicale, per quanto mi riguarda, però si era deciso così. Del resto le decisioni di un’associazione sono prese in più persone, per cui vanno rispettate. La cosa più difficoltosa, ma anche più utile è mettere da parte quello che è l’ambito personale.
Nel 2013 abbiamo realizzato Candelieri Residencies Program, con la residenza di Nico Vascellari la restituzione con Ascesa (preludio) è stata fatta nel 2014.

A.R.C. Non tutti quelli che leggeranno questa intervista sanno cosa sono i Candelieri. Riassumo velocemente. La Faradda (discesa) è una processione religiosa che si svolge il 14 agosto, a Sassari e, come abbiamo detto, in altri paesi della Sardegna. Prevede la sfilata ceri lignei, portati dai membri dei Gremi (associazioni di arti e mestieri). 
A Sassari è caratterizzata della sfilata a  ritmo di danza lungo il corso principale di Sassari,che è appunto in discesa, ecco perché la Faradda. La processione simile ad una danza è accompagnata dal suono di tamburi e pifferi. 
Fatta questa premessa, raccontami della residenza di Vascellari.

Nico Vascellari, performance 
sonora Ascesa (preludio) 
ispirata alla Faradda dei Candelieri di Sassari
P.C. La residenza vera e propria si è svolta in agosto, nel mese della “Faradda”.
Ha avuto quindi la possibilità di valutare, fare una ricerca e capire su cosa potesse lavorare.
La fase della restituzione Ascesa (preludio) è stato un atto performativo, che si è basato sull’ aspetto più ritmico, unendo il ritmo tipico della Faradda ad un suono più tecno. Una sorta di perdita di orientamento visivo e sonoro.

A.R.C. Secondo te, quanto è difficoltoso e complicato mettere in relazione l’arte contemporanea con una festa religiosa, una tradizione popolare?
P.C. Io la trovo una cosa facilissima. Premetto che in nessuno dei progetti occupo un ruolo curatoriale, ma ho potuto seguire, in entrambi i progetti, tutto lo svolgimento.
Un artista è in grado in base alla sua professionalità alla sua esperienza e formazione, una volta che viene invitato, di attuare un processo di ricerca tale che possa studiare quelli che sono i meccanismi nell’ambito della tradizione. Questa è una cosa in cui credo tantissimo.


A.R.C. Questo da parte dell’artista, ma chi riceve, chi sta dall’altra parte come reagisce. Rispetto agli anni Cinquanta, penso ai progetti di Nivola o i più recenti Maria Lai, sono cambiate molte cose: l’ accesso alle informazioni, al mondo esterno che appare più vicino, la tecnologia.
P.C. Dipende. Puoi trovare le persone di ogni tipo: trovi quelli che comprendono che la ricerca nel contemporaneo deve descrivere per filo e per segno quella che è la tradizione, non è un ritratto, non è una fotografia esatta di quello che avviene, ma è ovviamente una traduzione.
Ovviamente trovi anche situazioni diverse. Cito testualmente. Quando abbiamo fatto la mostra di restituzione nella prima edizione Candelieri4residencies_Dinamiche da un'induzione al Palazzo della Frumentaria, uno tizio mi ha detto. <<Si, va beh! Ma i candelieri dove sono?>> . Quando è terminata la performance di Vascellari si è sentita una voce, che nel video non si sente <<E’ tutto qua, ma stiamo scherzando?>>.

Belvì, 2015. Paolo Carta.
A.R.C. E’ interessante capire come viene recepito da chi lo vive. Mi riferivo proprio a questo.
Parliamo dei progetti attuali, raccontami di PAS _ Progetto Atelier Sardegna.
P.C. Quest’anno abbiamo iniziato a Belvì.
L’idea generale è nata nel 2011, poi si modificato in corso d’opera. L’anno scorso abbiamo fatto promozione nei comuni. Abbiamo spedito il progetto ai 377 comuni della Sardegna.
Nonostante sia un programma di residenze hanno risposto in pochissimi. Il primo è stato Belvì (NU), che ha risposto a due giorni dall’invio della richiesta. E’ stato un inizio bellissimo. Poi Samugheo (OR). Questo ci ha gasato, abbiamo pensato <<abbiamo fatto un progetto grandioso, piace… possiamo lavorare nell’ambito culturale delle arti visive…>> Silenzio. Poi in seguito sono arrivate le risposte di Luogosanto (OT) Guasila (CA), poi abbiamo preso contatti con Villaverde (OR).

A.R.C. Hanno risposto piccoli comuni. E’ molto interessante. Tra l’altro comuni di montagna o piccolissimi. Come attivate il progetto?
P.C. Sì, è molto interessante.  
Come attiviamo il progetto. Considera che un conto è fare il progetto e un conto è realizzarlo. Fare i conti con quelle che sono le difficoltà, le risorse effettive che il comune può mettere a disposizione.
Perché il progetto non può essere attivato se non ci sono dei parametri, non vengono rispettate delle indicazioni. Due sono fondamentali: la locazione. Dobbiamo necessariamente avere a disposizione una casa, l’altra è l’ambito di lavoro, che non sia completamente gratuito. Oggi i comuni, soprattutto quelli piccoli, non hanno niente, considera che questo è un progetto low badget.
Belvì, 2015. Bruno Marrapodi e Laura Vittoria Cherchi

A.R.C. Attualmente a Belvì, che è il primo paese, ci sono degli artisti in residenza. Ho visto che avete pubblicato delle foto su facebook. Chi sono?

P.C. Gli artisti che sono stati selezionati dal bando sono: Bruno Marrapodi un artista che opera nell’ambito della pittura e sta a Milano; Simone Mizzotti, lui è un fotografo che sta a Crema; Justin Tyler Tate canadese, ma ormai cittadino del mondo, opera nell’installazione e nel performativo.

A.R.C. Quale è stato l’obiettivo che vi siete preposti nella selezione degli artisti?
P.C. L’obiettivo nella selezione è stato quello di trovare artisti competenti che non si sovrapponessero fra di loro. E che operassero in maniera complementare. Non che lavorassero insieme, ma che operassero in maniera complementare. Prima ti dicevo che non ci sono soldi per gli artisti, però non mettiamo vincoli.
Belvì, 2015. Justin Tyler Tate e Laura Vittoria Cherchi
Lo scambio è questo: in cambio della residenza chiediamo agli artisti una proposta di attività, che non deve essere necessariamente una mostra o la produzione di un’opera. La scelta è assolutamente libera. Possono proporre un talk, possono proporre un work shop, possono proporre un laboratorio con i bambini.
In itinere il progetto può variare, non ci sono limiti neppure in questo senso. Naturalmente in accordo con la curatrice del progetto che è Laura Vittoria Cherchi.



A.R.C. Quando si concluderà l’esperienza di questi tre artisti? C’è una data di conclusione progetto?
P.C. Fine marzo.

A.R.C. Ho visto che è già partito il bando per le prossime residenze. Non c’è un attimo di respiro.
P.C. Sì, il bando per il secondo ciclo è scaduto il 28 febbraio. Abbiamo ricevuto già le candidature, stiamo facendo la selezione. A Belvì proseguiremo i progetti fino a febbraio 2016, sicuramente. Questo è l’impegno preso con Belvì. Gli artisti che sono qui apprezzano tantissimo quest’esperienza, gli ha permesso una decompressione dai ritmi a cui sono abituati.
In itinere attiveremo anche gli altri atelier, spero quanto prima Samugheo e Villaverde.
Essendo la prima, l’esperienza di Belvì è stata preziosa. Sicuramente rallenteremo i tempi di alternanza residenza-restituzione.

A.R.C.



Dove trovare Progetto Contemporaneo:






lunedì 9 marzo 2015

Conversazione con Marco Scozzaro/ artista

Marco Scozzaro, da qualche anno, vive e lavora New York.
Accanto al lavoro di ricerca affianca la professione di fotografo e di insegnante alla School of Visual Arts di New York.
Attiva nelle immagini un meccanismo di casualità costruita, lavorando sull’ esperienza del limiteOsservando il suo lavoro condividiamo situazioni che normalmente percepiremo come imbarazzanti: veniamo coinvolti a vivere il piacere dell'inconsueto osservato a distanza di sicurezza. Lo spettatore è sfidato a pensare fuori dagli schemi, indotto a fare diverse ipotesi, a giungere contemporaneamente a varie conclusioni, moltiplicando gli assi di comprensioneI soggetti fotografati sono un’occasione, il vero soggetto è riflettere sul desiderio di comunicazione che ci porta a conformarci, sul rapporto con gli altri, sulla nostra identità.
Per questa conversazione con Skipe, per via della distanza, ci siamo dati un appuntamento temporale agevole per entrambi: un venerdì mattina a New York contro un venerdì pomeriggio a Livorno. Fa freddo e c’è il sole.

A.R.C. Quali sono stati i tuoi inizi?
M.S. Ho iniziato ad interessarmi agli ambienti, fotografando dettagli.
Avevo un interesse verso il paesaggio urbano, una riflessione sul paesaggio urbano, anche abbastanza romantica. Un riferimento per me è la fotografia di Ghirri. All’epoca non avevo ancora tutti gli strumenti per fare quel tipo di fotografia, non lavoravo con il grande formato, con il banco ottico. Tutte quelle cose che sono fondamentali per quel tipo di ricerca. Poi mi sono spostato a lavorare sulle persone. Uno dei primi progetti è stato Mirror Neurons, quella serie di nudi con le calze, certamente diverso che fotografare un palazzo, ma penso che la tematica sia sempre molto simile.
Mirror Neurons
Allo stesso modo in cui cercavo una certa malinconia nel paesaggio, con Mirror Neurons, ho spostato lo stesso tipo di riflessione utilizzando delle persone per comunicare un certo tipo di distacco, rispetto a certe tematiche contemporanee, come l’omologazione.

A.R.C. Mi ha fatto venire in mente VB 55 di Vanessa Beecroft con una sfumatura grottesca, una ironia malinconica. La posa frontale, tutti uguali, un po’ da ospizio, ma molto bello.
M.S. Probabilmente il lavoro della Beecroft a livello inconscio mi ha ispirato, ancora una volta non c’è il tentativo di rendere glamour, anzi è anti glam. E’ un po’ difficile rendere l’idea, preferisco evocare che rendere esplicito. In tutti i miei lavori si può vedere una sorta di distacco, non percepisci esattamente dove sei. E’ uno stare in bilico: in certe situazioni sentirsi a proprio agio e stare un po’ a disagio, e forse anche goderne di queste situazioni. Non è necessariamente una situazione negativa o di pessimismo cosmico.
Ho lavorato molto nel mondo dell’industria del creativo, mi ci confronto quotidianamente con la mia attività di fotografo editoriale e commerciale.

Maggio, scatti in mostra
A.R.C. Il ritratto rappresenta la possibilità di conoscere, di relazionarsi con l’altro. Tu fai ritratti?
M.S. Mi interessa molto il discorso del ritratto.
Quello di cercare altre persone, a me risulta un bisogno quasi naturale, mi interessa molto. Forse è una curiosità, un’esigenza istintuale quella di utilizzare il ritratto come forma di espressione.
Lavoro prevalentemente per delle riviste, faccio ritratti editoriali. Nel mio percorso professionale, oltre che artistico, mi interessa ritrarre le persone nel loro ambiente. A parte le limitazioni che ci sono quando lavori professionalmente per un cliente. Non lavori al cento per cento come faresti autonomamente e, allo stesso tempo, è una sfida nel riuscire ad interpretare una richiesta e dare il tuo punto di vista.
Per la mia indagine artistica, cerco di capire la relazione delle persone con gli ambienti, come le persone si relazionano allo spazio, alla città, all’ambiente urbano. Ad esempio, è quello che accadeva in Fisica o in uno spazio più intimo, domestico che è un po’ più la ricerca che sto facendo adesso con Maggio.
In realtà il ritratto non è stata una scelta immediata, ho iniziato a fotografare altro poi mi sono avvicinato al ritratto, un po’ come sfida, perché per me non è così immediato avvicinarmi alle persone. Decidere di fare un lavoro fondato sul ritratto è come una sorta di spinta per avvicinarmi di più alla gente.

A.R.C. Come scegli i soggetti? C’è una familiarità, sono persone che conosci o sono dei perfetti estranei?
Semi-Detached, scatti in mostra
M.S. Ci sono due approcci fondamentalmente, uno è approcciare perfetti sconosciuti per strada come nel lavoro Semi-Detached, oppure persone conosciute. E’ un misto.
Quando sono arrivato qui a New York, per una residenza artistica, dovevo lavorare ad un nuovo materiale e, visto che fino a quel momento avevo lavorato con le persone mi interessava proseguire.
Ovviamente a New York non conoscevo ancora nessuno, quindi la soluzione era per strada e prendere dei perfetti sconosciuti.
Non erano presi random, alla cieca. Andavo in una parte di città che mi interessava, decidevo di mettermi in un angolo che mi interessava e aspettavo lì con la mia macchina. Aspettavo che passasse in quel momento una persona che mi interessasse e che potesse avere qualcosa di interessante in quel momento e gli chiedevo di fotografarlo. Un po’ un approccio da street fotografo con la differenza che avevo un banco ottico.
 Newprimal/ Newtribal
Poi, il lavoro si è spostato in studio, fotografando dei nudi. Continuando il discorso di Mirror Neurons ho messo degli annunci su craigslist, un sito che c’è a New York. Poi da lì mi sono spostato sulla strada per cercare di fare la stessa cosa, cercare la gente sempre nello stesso modo.
Ci vogliono più preparativi, i modelli devo essere a conoscenza a cosa vanno incontro. In un posto come New York è più facile trovare gente disponibile, piuttosto che in piccolo centro. Non avrei pensato di fare un lavoro del genere in Italia, anche se in Italia ho fatto ho fatto lavori come Newprimal/ Newtribal. In questo caso ho utilizzato dei contesti naturali e non urbani. Mi interessava un richiamo a dei dipinti classici con quella vena dissacratoria che c’è nei miei lavori.

A.R.C. Sei arrivato a New York per una residenza d’artista. Come è cambiato il tuo modo di lavorare, se è cambiato, rispetto a quando stavi in Italia?
M.S. E’ cambiato, ma allo stesso tempo essere qui mi ha fatto riflettere su quello che sono, su quello che voglio, su quello che mi interessa dire, in una dimensione più professionale. Essere a contatto con realtà artistiche diverse, con gallerie, musei. Tramite la mia residenza di un anno, ho avuto modo di conoscere e lavorare con artisti internazionali. Quell’ esperienza mi ha fatto focalizzare in maniera seria il perseguire la mia ricerca artistica. E’ stata una presa di coscienza. Il distacco mi ha fatto rendere conto che cose che non mi avevano interessato, in realtà mi interessano molto, delle dinamiche di cui non mi ero mai occupato, risultano cose molto interessanti.
Ad esempio, non ho mai fotografato la mia famiglia. Dal punto di vista fotografico la maggior parte dei fotografi americani si occupano della famiglia, per questa mancanza di storia che ha questo paese. Dopo il primo anno qui, dopo essere stato in contatto con artisti che si occupavano di questo, mi è nato questo interesse.
Maggio nasce così, tratta di me a New York e me in Italia. In realtà fotografare persone vicino a me ha un senso, ad esempio, per Maggio sto fotografando persone vicino a me.
E’ una presa di coscienza, perché quello che ho fatto con Maggio non è molto diverso da quello che ho fatto con Tegretol.

A.R.C. Tegretol è un lavoro d’archivio?
Tegretol, libro d'artista
M.S. Tegretol non è un lavoro pubblicato, è un libro d’artista, come Maggio, non è ancora pubblicato, ci sto ancora lavorando.
Il fatto che abbia stampato Tegretol a New York in quel periodo nasce dal fatto che mi interessa tornare sul mio archivio e cercare di capire il mio lavoro in prospettiva.
Fisica era accostare un edificio a una persona, era quella dimensione di mezzo tra iniziare a scattare ritratti in città e poi mettere insieme le due cose
Quando a New York stavo realizzando i ritratti per strada, riguardando Fisica ho iniziato a pensare ad un’idea di libro più che ad un’idea di mostra.

A.R.C. Metti sempre accanto due cose: America-Italia, edifici-persone. Come sistemare due situazioni, mettere affianco due esperienze, due forme diverse, due contesti.
M.S. Ad un certo punto era una specie di ossessione, mi ero imposto di lavorare per dittici, sempre pensando alla carta stampata. I dittici nascono pensando ad una doppia pagina di una rivista, di un libro. Penso sempre a come far dialogare un’immagine in un contesto che non sia il muro di un a galleria. Fisica è nato come dittico. Ad un certo punto volevo creare una serie, allontanarmi da questa dimensione dicotomica, non è stato facile. Editare Maggio è stato ed è tutt’ora difficile. Ho creato cinque o sei manchette diverse. Mi piace partire dalla realtà ma allo stesso tempo combinare, incasinare gli elementi.

A.R.C. A cosa stai lavorando ora?
Accanto ai lavori di still life in studio, sto lavorando con delle immagini dall’ iPhone. Ho finito di stampare la manchette di questo nuovo libro, non so se sarà un libro, ma mi sono trovato a lavorare con immagini dall’iPhone, mi sono reso conto che stavo scattando solo un certo tipo di immagini, solo da un certo punto di vista, solo da un certo angolo, con una certa automaticità, ad un certo punto ne sono stato consapevole e ho creato un tambler, che in realtà ho da tanto tempo, e ho iniziato a postare queste foto lì, e il modo in cui si arrangiavano sullo schermo mi ha fatto pensare ad un libro. Allora dal web e dal digitale sono tornato alla carta e ho messo assieme tutte queste immagini, che di per se sono dettagli di cose che vedo quotidianamente, che metto assieme, in accumulo.

A.R.C. Prima si citava Ghirri, mi pare che ci sia molto lo spirito snapshot.
M.S. E’ assolutamente un Ghirri digitale, è quello che avrebbe fatto lui con l’iPhone.

A.R.C


Dove trovare Marco Scozzano:


giovedì 5 marzo 2015

Conversazione con Giovanni Presutti/ artista

Incontro Giovanni Presutti a Firenze, dove vive e lavora.
Mi racconta dei progetti precedenti, di Synap(see), il collettivo di cui fa parte da quattro anni, e del nuovo progetto nelle aree protette, nei Parchi Nazionali.  
La scelta della fotografia è una sorta di chiamata. Dopo la Laurea in Legge, infatti, abbandona la giurisprudenza e studia fotografia, si diploma alla scuola Arte di Firenze e all’istituto Kaverdash di Milano. Entra a far parte del prestigioso Reflexions Masterclass, guidato da Giorgia Fiorio.
Da subito rivolge il suo interesse alla ricerca personale e al reportage di approfondimento. La sua ricerca è orientata verso la contemporaneità sia nell’ osservazione delle sue devianze, che nelle analisi del territorio.

A.R.C. I tuoi lavori, da una parte sono un viaggio nel presente, nella realtà del quotidiano, temi che toccano l’ambiente e il paesaggio, come per Eolo, dall’altra riguardano una ricerca più specificatamente legata alle ossessioni come Hello, Dolly! Dependency. Cosa hanno in comune questi lavori?
Dependancy
G.P. La cosa che li unisce è l’analisi della contemporaneità e la criticità della contemporaneità.
Un lavoro come Dependency, così come Hello, Dolly! hanno una messa in scena, sono costruiti su un immaginario.
Con altri , come il lavoro Contemporanea a prevalere è il rapporto con il territorio. Sto attento sempre ad uno stile rigoroso, di ricerca preliminare nei contenuti e un risultato visivo fine art.
Entrambi i lavori sono comunque un’analisi del territorio con riferimento alla contemporaneità, allo stile di vita, alle scelte sui consumi. Dependency infondo è questo: il consumo che crea dipendenza.

A.R.C. Parlami di questo lavoro Contemporanea di cosa si tratta?

Contemporanea, Maxxi, Roma
Nel lavoro Contemporanea metto in luce soprattutto le opere delle archistar. 
Spostandomi in tutta Europa da una città all’altra, ho indagato le architetture costruite nell’ultimo decennio, opere di grandi maestri quali Libeskind, Foster, Meier, Calatrava, Zaha Hadid.
Un’omologazione culturale completa. Ho fotografato edifici in tutta Europa, se togliessi la didascalia sarebbe irriconoscibile il luogo di appartenenza, sono tutte uguali, costruzioni spettacolari realizzate con le più moderne tecnologie e i materiali più innovativi, eppure assolutamente omologate.
C’è questo senso di livellamento in superficie, non c’è un interesse a lavorare sul territorio. Ci possono essere delle piccole variazioni, ma le linee globali, sia delle strutture che dei materiali sono sempre le stesse. E’ raro che si diversifichino. In Spagna ho trovato un edificio in legno, una progetto di residenza sociale, un unicum.
Anche qui ho reso operativa un’attenzione particolare al risultato finale, molto rigoroso. C’è un lavoro preliminare di ricerca e, un lavoro di riorganizzazione del materiale molto preciso. 
Eppure, la distinzione tra un luogo e l’altro, un edificio e l’altro è nella scansione dei capitoli, nelle didascalie.

A.R.C. Fotografia e video, Street art e tatuaggi sono pratiche immediate e reattive rispetto alle azioni di confine, permettono di agire sulla pelle delle cose. La pelle delle città e la pelle delle persone, il resto sembra essere insignificante, ripetitivo. Cosa ne pensi?
G.P. Nell’arte contemporanea si sentono ripetere i soliti stereotipi. Oggi è importante tornare alle proprie origini, perché bene o male quello che può dare un senso ad una ricerca artistica è una visione personale, cercare il più possibile di lavorare sul proprio territorio.
D’altra parte si viaggia, tutti vanno da tutte le parti, è importante lavorare all’estero, anche se in questo modo tendi ad uniformarti ancora di più. Puoi tirar fuori l’originalità quando lavori nel tuo territorio.
Quello che tendo a fare è proprio questo.

A.R.C. In Hello, Dolly! costruisci una visione del futuro per mezzo di immagini allusive di una rappresentazione cinematografica. In luoghi noti, in un contesto riconducibile ad un ipotetico futuro, piuttosto inquietante, fai vivere ad una bambola esperienze paradossali.
Parlami di questo lavoro, della scelta di questo personaggio e dei paesaggi urbani nei quali si muove.
Hello, Dolly!
G.P. Dolly non è una bambolina. E’ una Winx alta un metro.
Per rappresentare il futuro, ho scelto come ambientazione i luoghi del consumo, vissuti di notte, quando in realtà non c’è nessuno, perché di notte sono deserti. Volevo dare il senso dell’abbandono, sia in un futuro ipotetico, nel quale la Winx si muove, sia del presente. Se vai in quei luoghi di notte sono comunque abbandonati.
La maggior parte delle ambientazioni, delle atmosfere, hanno un richiamo ai film di fantascienza come Matrix, 1997 fuga da New York, Blade Runner. C’è un doppio livello di lettura. Da una parte ho lavorato sull’inconscio collettivo del futuribile e del catastrofismo. Oramai sono cinquant’anni che nel cinema americano e, qualche volta anche europeo, viene raccontato questa idea di futuro catastrofico, quindi a partire da questo substrato creo un’ atmosfera di futuro aggiornata alla realtà di oggi.
Questo senso di catastrofe e di paura del futuro in qualche modo ce lo portiamo dentro. Pensa anche ai problemi ambientali. Non fare sufficiente resilienza oggi, non adottando modelli di decrescita ma modelli comportamentali deviati, si arriva a quel futuro là.

A.R.C. A proposito di problemi ambientali. Hai realizzato un lavoro Eolo che tratta proprio dell’ambiente, del futuro e delle risorse sostenibili. Raccontami di questo lavoro, come è nato? Come lo hai sviluppato?
Eolo
G.P. E’ una cosa che mi ha sempre affascinato, però mi rendo conto che non posso dare un giudizio positivo o negativo. Il giudizio dipende da dove i parchi eolici sono stati impiantati, nel rapporto con la comunità locale.
Per realizzare il lavoro, prima di tutto mi sono documentato e, ho scoperto che al 95% i parchi eolici sono presenti nel meridione. Li ho visitati tutti, a uno a uno, perché volevo mettere in evidenza come questi convivessero con l’ambiente e con le comunità del luogo. Era una cosa che non poteva essere fatta a meno che non li facessi tutti. Tutte queste situazioni sono strane: c’è un parco eolico di fronte ad uno stadio, uno vicino ad un parco giochi. E’ evidente che non sono presenti solo in cima ai monti, dove siamo abituati a vederli, dove sembrano tutti uguali.

A.R.C. A cosa stai lavorando in questo momento?
G.P. Sto lavorando sul Parco dell’Arcipelago Toscano: l’isola d’Elba poi l’isola del Giglio, Pianosa, Capraia, Montecristo. Ho scelto di lavorare su qualcosa vicino a me, che conosco bene, cercando di dare una visione vera, priva di preconcetti.
Un aspetto che mi interessa è quello relativo all’ inquinamento della plastica. L’isola d’Elba è uno dei posti che ha una concentrazione maggiore di plastica di tutto il Mediterraneo. Non so se hai sentito parlare dell’isola di plastica nell’ Oceano Pacifico. Il Mediterraneo ha una concentrazione di plastica maggiore, quella che non vediamo, la plastica sbriciolata. Porto Ferraio ha una concentrazione di questa plastica molto alto. In questo lavoro mi interessava mettere in evidenza la relazione tra questo problema di inquinamento e l’istituto di Parco Nazionale, la contraddizione tra degrado e tutela. In questo lavoro sui parchi cerchiamo di porre in evidenza i limiti del concetto di parco.
Ho iniziato a lavorarci, le immagini sono molto scure, così da porre in evidenza il lato oscuro della contraddizione, sono come avvolte nella plastica. Alcune foto le puoi vedere in intro del mio sito. E’un progetto più ampio sui parchi naturali, è un lavoro del collettivo Synap(see), di cui faccio parte.

A.R.C. Parlami del collettivo. Cos’è Synap(see)?
Hipsta.Nothing
G.P. Il collettivo Synap(see) è nato quattro anni fa. Siamo nove fotografi sparsi in tutt’Italia.
I primi tre anni ci davamo un tema, abbastanza generico. Prima “Terra nostra” un’analisi sociale- ambientale, in quell’ occasione feci Eolo, poi “Un’altra vita” feci Dolly, poi per “Caos” Hipsta.Nothing un lavoro sul voyeuristico cronico da smartphone.
Pur mantenendo una certa autonomia, ci confrontiamo incontrandoci tre o quattro volte l’anno, prendendo spunto dal tema del collettivo sviluppiamo interessi specifici. Il lavoro ha sempre avuto una doppia valenza.
Ad un certo punto però questa strada che avevamo preso ci ha un po’ stancato, sembrava quasi un esercizio di stile: ci si da’ un tema, ognuno fa il suo lavoro e via. Abbiamo deciso di essere ancora più stretti. Abbiamo deciso di collaborare con un curatore e lavora in maniera più precisa sull’idea di collettivo.
Il progetto dei parchi nasce proprio in questa seconda fase.

ARC

 Dove trovare Giovanni Presutti: