Marco Scozzaro, da qualche
anno, vive e lavora New York.
Accanto al lavoro di ricerca affianca
la professione di fotografo e di insegnante alla School of Visual Arts di New
York.
Attiva nelle immagini
un meccanismo di casualità costruita, lavorando sull’ esperienza del limite. Osservando il suo lavoro
condividiamo situazioni che normalmente percepiremo come imbarazzanti: veniamo
coinvolti a vivere il piacere dell'inconsueto osservato a distanza di sicurezza. Lo spettatore è sfidato a pensare fuori dagli schemi, indotto a
fare diverse ipotesi, a giungere contemporaneamente a varie conclusioni,
moltiplicando gli assi di comprensione. I soggetti fotografati sono
un’occasione, il vero soggetto è riflettere sul desiderio di
comunicazione che ci porta a conformarci, sul rapporto con gli altri, sulla
nostra identità.
Per questa conversazione con
Skipe, per via della distanza, ci siamo dati un appuntamento temporale agevole
per entrambi: un venerdì mattina a New York contro un venerdì pomeriggio a Livorno. Fa freddo e c’è
il sole.
A.R.C. Quali sono stati i tuoi inizi?
M.S. Ho iniziato ad
interessarmi agli ambienti, fotografando dettagli.
Avevo un interesse verso il paesaggio urbano, una riflessione sul
paesaggio urbano, anche abbastanza romantica. Un riferimento per me è la
fotografia di Ghirri. All’epoca non avevo ancora tutti gli strumenti per fare
quel tipo di fotografia, non lavoravo con il grande formato, con il banco
ottico. Tutte quelle cose che sono fondamentali per quel tipo di ricerca. Poi mi
sono spostato a lavorare sulle persone. Uno dei primi progetti è stato Mirror Neurons, quella serie di nudi con
le calze, certamente diverso che fotografare un palazzo, ma penso che la
tematica sia sempre molto simile.
Mirror Neurons |
A.R.C. Mi ha fatto venire in mente
VB 55 di Vanessa Beecroft con una sfumatura grottesca, una ironia malinconica. La
posa frontale, tutti uguali, un po’ da ospizio, ma molto bello.
M.S. Probabilmente il lavoro
della Beecroft a livello inconscio mi ha ispirato, ancora una volta non c’è il
tentativo di rendere glamour, anzi è anti glam. E’ un po’ difficile rendere
l’idea, preferisco evocare che rendere esplicito. In tutti i miei lavori si può
vedere una sorta di distacco, non percepisci esattamente dove sei. E’ uno stare
in bilico: in certe situazioni sentirsi a proprio agio e stare un po’ a
disagio, e forse anche goderne di queste situazioni. Non è necessariamente una
situazione negativa o di pessimismo cosmico.
Ho lavorato molto nel mondo dell’industria del creativo, mi ci confronto
quotidianamente con la mia attività di fotografo editoriale e commerciale.
Maggio, scatti in mostra |
M.S. Mi interessa molto il
discorso del ritratto.
Quello di cercare altre persone, a me risulta un bisogno quasi naturale, mi
interessa molto. Forse è una curiosità, un’esigenza istintuale quella di
utilizzare il ritratto come forma di espressione.
Lavoro prevalentemente per delle riviste, faccio ritratti editoriali. Nel
mio percorso professionale, oltre che artistico, mi interessa ritrarre le
persone nel loro ambiente. A parte le limitazioni che ci sono quando lavori
professionalmente per un cliente. Non lavori al cento per cento come faresti
autonomamente e, allo stesso tempo, è una sfida nel riuscire ad interpretare
una richiesta e dare il tuo punto di vista.
Per la mia indagine artistica, cerco di capire la relazione delle
persone con gli ambienti, come le persone si relazionano allo spazio, alla
città, all’ambiente urbano. Ad esempio, è quello che accadeva in Fisica o in uno spazio più intimo,
domestico che è un po’ più la ricerca che sto facendo adesso con Maggio.
In realtà il ritratto non è stata una scelta immediata, ho iniziato a
fotografare altro poi mi sono avvicinato al ritratto, un po’ come sfida, perché
per me non è così immediato avvicinarmi alle persone. Decidere di fare un
lavoro fondato sul ritratto è come una sorta di spinta per avvicinarmi di più
alla gente.
A.R.C. Come scegli i soggetti? C’è
una familiarità, sono persone che conosci o sono dei perfetti estranei?
Semi-Detached, scatti in mostra |
M.S. Ci sono due approcci
fondamentalmente, uno è approcciare perfetti sconosciuti per strada come nel
lavoro Semi-Detached, oppure persone
conosciute. E’ un misto.
Quando sono arrivato qui a New York, per una residenza artistica, dovevo
lavorare ad un nuovo materiale e, visto che fino a quel momento avevo lavorato
con le persone mi interessava proseguire.
Ovviamente a New York non conoscevo ancora nessuno, quindi la soluzione
era per strada e prendere dei perfetti sconosciuti.
Non erano presi random, alla cieca. Andavo in una parte di città che mi
interessava, decidevo di mettermi in un angolo che mi interessava e aspettavo
lì con la mia macchina. Aspettavo che passasse in quel momento una persona che
mi interessasse e che potesse avere qualcosa di interessante in quel momento e
gli chiedevo di fotografarlo. Un po’ un approccio da street fotografo con la
differenza che avevo un banco ottico.
Newprimal/ Newtribal |
Ci vogliono più preparativi, i modelli devo essere a conoscenza a cosa
vanno incontro. In un posto come New York è più facile trovare gente
disponibile, piuttosto che in piccolo centro. Non avrei pensato di fare un
lavoro del genere in Italia, anche se in Italia ho fatto ho fatto lavori come
Newprimal/ Newtribal. In questo caso ho utilizzato dei contesti naturali e non
urbani. Mi interessava un richiamo a dei dipinti classici con quella vena
dissacratoria che c’è nei miei lavori.
A.R.C. Sei arrivato a New York per
una residenza d’artista. Come è cambiato il tuo modo di lavorare, se è cambiato,
rispetto a quando stavi in Italia?
M.S. E’ cambiato, ma allo
stesso tempo essere qui mi ha fatto riflettere su quello che sono, su quello
che voglio, su quello che mi interessa dire, in una dimensione più
professionale. Essere a contatto con realtà artistiche diverse, con gallerie,
musei. Tramite la mia residenza di un anno, ho avuto modo di conoscere e
lavorare con artisti internazionali. Quell’ esperienza mi ha fatto focalizzare
in maniera seria il perseguire la mia ricerca artistica. E’ stata una presa di
coscienza. Il distacco mi ha fatto rendere conto che cose che non mi avevano
interessato, in realtà mi interessano molto, delle dinamiche di cui non mi ero
mai occupato, risultano cose molto interessanti.
Ad esempio, non ho mai fotografato la mia famiglia. Dal punto di vista
fotografico la maggior parte dei fotografi americani si occupano della
famiglia, per questa mancanza di storia che ha questo paese. Dopo il primo anno
qui, dopo essere stato in contatto con artisti che si occupavano di questo, mi
è nato questo interesse.
Maggio nasce così, tratta di me
a New York e me in Italia. In realtà fotografare persone vicino a me ha un
senso, ad esempio, per Maggio sto
fotografando persone vicino a me.
E’ una presa di coscienza, perché quello che ho fatto con Maggio non è molto diverso da quello
che ho fatto con Tegretol.
A.R.C. Tegretol è un lavoro d’archivio?
Tegretol, libro d'artista |
Il fatto che abbia stampato Tegretol
a New York in quel periodo nasce dal fatto che mi interessa tornare sul mio
archivio e cercare di capire il mio lavoro in prospettiva.
Fisica era accostare un
edificio a una persona, era quella dimensione di mezzo tra iniziare a scattare
ritratti in città e poi mettere insieme le due cose
Quando a New York stavo realizzando i ritratti per strada, riguardando Fisica ho iniziato a pensare ad un’idea
di libro più che ad un’idea di mostra.
A.R.C. Metti sempre accanto due cose: America-Italia, edifici-persone. Come
sistemare due situazioni, mettere affianco due esperienze, due forme diverse,
due contesti.
M.S. Ad un certo punto era una
specie di ossessione, mi ero imposto di lavorare per dittici, sempre pensando
alla carta stampata. I dittici nascono pensando ad una doppia pagina di una
rivista, di un libro. Penso sempre a come far dialogare un’immagine in un contesto
che non sia il muro di un a galleria. Fisica
è nato come dittico. Ad un certo punto volevo creare una serie, allontanarmi da
questa dimensione dicotomica, non è stato facile. Editare Maggio è stato ed è tutt’ora difficile. Ho creato cinque o sei manchette
diverse. Mi piace partire dalla realtà ma allo stesso tempo combinare,
incasinare gli elementi.
Accanto ai lavori di still life in studio, sto lavorando con delle
immagini dall’ iPhone. Ho finito di stampare la manchette di questo nuovo libro,
non so se sarà un libro, ma mi sono trovato a lavorare con immagini dall’iPhone,
mi sono reso conto che stavo scattando solo un certo tipo di immagini, solo da
un certo punto di vista, solo da un certo angolo, con una certa automaticità,
ad un certo punto ne sono stato consapevole e ho creato un tambler, che in
realtà ho da tanto tempo, e ho iniziato a postare queste foto lì, e il modo in
cui si arrangiavano sullo schermo mi ha fatto pensare ad un libro. Allora dal
web e dal digitale sono tornato alla carta e ho messo assieme tutte queste
immagini, che di per se sono dettagli di cose che vedo quotidianamente, che metto
assieme, in accumulo.
A.R.C. Prima si citava Ghirri, mi
pare che ci sia molto lo spirito snapshot.
M.S. E’ assolutamente un
Ghirri digitale, è quello che avrebbe fatto lui con l’iPhone.
A.R.C
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