lunedì 9 marzo 2015

Conversazione con Marco Scozzaro/ artista

Marco Scozzaro, da qualche anno, vive e lavora New York.
Accanto al lavoro di ricerca affianca la professione di fotografo e di insegnante alla School of Visual Arts di New York.
Attiva nelle immagini un meccanismo di casualità costruita, lavorando sull’ esperienza del limiteOsservando il suo lavoro condividiamo situazioni che normalmente percepiremo come imbarazzanti: veniamo coinvolti a vivere il piacere dell'inconsueto osservato a distanza di sicurezza. Lo spettatore è sfidato a pensare fuori dagli schemi, indotto a fare diverse ipotesi, a giungere contemporaneamente a varie conclusioni, moltiplicando gli assi di comprensioneI soggetti fotografati sono un’occasione, il vero soggetto è riflettere sul desiderio di comunicazione che ci porta a conformarci, sul rapporto con gli altri, sulla nostra identità.
Per questa conversazione con Skipe, per via della distanza, ci siamo dati un appuntamento temporale agevole per entrambi: un venerdì mattina a New York contro un venerdì pomeriggio a Livorno. Fa freddo e c’è il sole.

A.R.C. Quali sono stati i tuoi inizi?
M.S. Ho iniziato ad interessarmi agli ambienti, fotografando dettagli.
Avevo un interesse verso il paesaggio urbano, una riflessione sul paesaggio urbano, anche abbastanza romantica. Un riferimento per me è la fotografia di Ghirri. All’epoca non avevo ancora tutti gli strumenti per fare quel tipo di fotografia, non lavoravo con il grande formato, con il banco ottico. Tutte quelle cose che sono fondamentali per quel tipo di ricerca. Poi mi sono spostato a lavorare sulle persone. Uno dei primi progetti è stato Mirror Neurons, quella serie di nudi con le calze, certamente diverso che fotografare un palazzo, ma penso che la tematica sia sempre molto simile.
Mirror Neurons
Allo stesso modo in cui cercavo una certa malinconia nel paesaggio, con Mirror Neurons, ho spostato lo stesso tipo di riflessione utilizzando delle persone per comunicare un certo tipo di distacco, rispetto a certe tematiche contemporanee, come l’omologazione.

A.R.C. Mi ha fatto venire in mente VB 55 di Vanessa Beecroft con una sfumatura grottesca, una ironia malinconica. La posa frontale, tutti uguali, un po’ da ospizio, ma molto bello.
M.S. Probabilmente il lavoro della Beecroft a livello inconscio mi ha ispirato, ancora una volta non c’è il tentativo di rendere glamour, anzi è anti glam. E’ un po’ difficile rendere l’idea, preferisco evocare che rendere esplicito. In tutti i miei lavori si può vedere una sorta di distacco, non percepisci esattamente dove sei. E’ uno stare in bilico: in certe situazioni sentirsi a proprio agio e stare un po’ a disagio, e forse anche goderne di queste situazioni. Non è necessariamente una situazione negativa o di pessimismo cosmico.
Ho lavorato molto nel mondo dell’industria del creativo, mi ci confronto quotidianamente con la mia attività di fotografo editoriale e commerciale.

Maggio, scatti in mostra
A.R.C. Il ritratto rappresenta la possibilità di conoscere, di relazionarsi con l’altro. Tu fai ritratti?
M.S. Mi interessa molto il discorso del ritratto.
Quello di cercare altre persone, a me risulta un bisogno quasi naturale, mi interessa molto. Forse è una curiosità, un’esigenza istintuale quella di utilizzare il ritratto come forma di espressione.
Lavoro prevalentemente per delle riviste, faccio ritratti editoriali. Nel mio percorso professionale, oltre che artistico, mi interessa ritrarre le persone nel loro ambiente. A parte le limitazioni che ci sono quando lavori professionalmente per un cliente. Non lavori al cento per cento come faresti autonomamente e, allo stesso tempo, è una sfida nel riuscire ad interpretare una richiesta e dare il tuo punto di vista.
Per la mia indagine artistica, cerco di capire la relazione delle persone con gli ambienti, come le persone si relazionano allo spazio, alla città, all’ambiente urbano. Ad esempio, è quello che accadeva in Fisica o in uno spazio più intimo, domestico che è un po’ più la ricerca che sto facendo adesso con Maggio.
In realtà il ritratto non è stata una scelta immediata, ho iniziato a fotografare altro poi mi sono avvicinato al ritratto, un po’ come sfida, perché per me non è così immediato avvicinarmi alle persone. Decidere di fare un lavoro fondato sul ritratto è come una sorta di spinta per avvicinarmi di più alla gente.

A.R.C. Come scegli i soggetti? C’è una familiarità, sono persone che conosci o sono dei perfetti estranei?
Semi-Detached, scatti in mostra
M.S. Ci sono due approcci fondamentalmente, uno è approcciare perfetti sconosciuti per strada come nel lavoro Semi-Detached, oppure persone conosciute. E’ un misto.
Quando sono arrivato qui a New York, per una residenza artistica, dovevo lavorare ad un nuovo materiale e, visto che fino a quel momento avevo lavorato con le persone mi interessava proseguire.
Ovviamente a New York non conoscevo ancora nessuno, quindi la soluzione era per strada e prendere dei perfetti sconosciuti.
Non erano presi random, alla cieca. Andavo in una parte di città che mi interessava, decidevo di mettermi in un angolo che mi interessava e aspettavo lì con la mia macchina. Aspettavo che passasse in quel momento una persona che mi interessasse e che potesse avere qualcosa di interessante in quel momento e gli chiedevo di fotografarlo. Un po’ un approccio da street fotografo con la differenza che avevo un banco ottico.
 Newprimal/ Newtribal
Poi, il lavoro si è spostato in studio, fotografando dei nudi. Continuando il discorso di Mirror Neurons ho messo degli annunci su craigslist, un sito che c’è a New York. Poi da lì mi sono spostato sulla strada per cercare di fare la stessa cosa, cercare la gente sempre nello stesso modo.
Ci vogliono più preparativi, i modelli devo essere a conoscenza a cosa vanno incontro. In un posto come New York è più facile trovare gente disponibile, piuttosto che in piccolo centro. Non avrei pensato di fare un lavoro del genere in Italia, anche se in Italia ho fatto ho fatto lavori come Newprimal/ Newtribal. In questo caso ho utilizzato dei contesti naturali e non urbani. Mi interessava un richiamo a dei dipinti classici con quella vena dissacratoria che c’è nei miei lavori.

A.R.C. Sei arrivato a New York per una residenza d’artista. Come è cambiato il tuo modo di lavorare, se è cambiato, rispetto a quando stavi in Italia?
M.S. E’ cambiato, ma allo stesso tempo essere qui mi ha fatto riflettere su quello che sono, su quello che voglio, su quello che mi interessa dire, in una dimensione più professionale. Essere a contatto con realtà artistiche diverse, con gallerie, musei. Tramite la mia residenza di un anno, ho avuto modo di conoscere e lavorare con artisti internazionali. Quell’ esperienza mi ha fatto focalizzare in maniera seria il perseguire la mia ricerca artistica. E’ stata una presa di coscienza. Il distacco mi ha fatto rendere conto che cose che non mi avevano interessato, in realtà mi interessano molto, delle dinamiche di cui non mi ero mai occupato, risultano cose molto interessanti.
Ad esempio, non ho mai fotografato la mia famiglia. Dal punto di vista fotografico la maggior parte dei fotografi americani si occupano della famiglia, per questa mancanza di storia che ha questo paese. Dopo il primo anno qui, dopo essere stato in contatto con artisti che si occupavano di questo, mi è nato questo interesse.
Maggio nasce così, tratta di me a New York e me in Italia. In realtà fotografare persone vicino a me ha un senso, ad esempio, per Maggio sto fotografando persone vicino a me.
E’ una presa di coscienza, perché quello che ho fatto con Maggio non è molto diverso da quello che ho fatto con Tegretol.

A.R.C. Tegretol è un lavoro d’archivio?
Tegretol, libro d'artista
M.S. Tegretol non è un lavoro pubblicato, è un libro d’artista, come Maggio, non è ancora pubblicato, ci sto ancora lavorando.
Il fatto che abbia stampato Tegretol a New York in quel periodo nasce dal fatto che mi interessa tornare sul mio archivio e cercare di capire il mio lavoro in prospettiva.
Fisica era accostare un edificio a una persona, era quella dimensione di mezzo tra iniziare a scattare ritratti in città e poi mettere insieme le due cose
Quando a New York stavo realizzando i ritratti per strada, riguardando Fisica ho iniziato a pensare ad un’idea di libro più che ad un’idea di mostra.

A.R.C. Metti sempre accanto due cose: America-Italia, edifici-persone. Come sistemare due situazioni, mettere affianco due esperienze, due forme diverse, due contesti.
M.S. Ad un certo punto era una specie di ossessione, mi ero imposto di lavorare per dittici, sempre pensando alla carta stampata. I dittici nascono pensando ad una doppia pagina di una rivista, di un libro. Penso sempre a come far dialogare un’immagine in un contesto che non sia il muro di un a galleria. Fisica è nato come dittico. Ad un certo punto volevo creare una serie, allontanarmi da questa dimensione dicotomica, non è stato facile. Editare Maggio è stato ed è tutt’ora difficile. Ho creato cinque o sei manchette diverse. Mi piace partire dalla realtà ma allo stesso tempo combinare, incasinare gli elementi.

A.R.C. A cosa stai lavorando ora?
Accanto ai lavori di still life in studio, sto lavorando con delle immagini dall’ iPhone. Ho finito di stampare la manchette di questo nuovo libro, non so se sarà un libro, ma mi sono trovato a lavorare con immagini dall’iPhone, mi sono reso conto che stavo scattando solo un certo tipo di immagini, solo da un certo punto di vista, solo da un certo angolo, con una certa automaticità, ad un certo punto ne sono stato consapevole e ho creato un tambler, che in realtà ho da tanto tempo, e ho iniziato a postare queste foto lì, e il modo in cui si arrangiavano sullo schermo mi ha fatto pensare ad un libro. Allora dal web e dal digitale sono tornato alla carta e ho messo assieme tutte queste immagini, che di per se sono dettagli di cose che vedo quotidianamente, che metto assieme, in accumulo.

A.R.C. Prima si citava Ghirri, mi pare che ci sia molto lo spirito snapshot.
M.S. E’ assolutamente un Ghirri digitale, è quello che avrebbe fatto lui con l’iPhone.

A.R.C


Dove trovare Marco Scozzano:


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