martedì 23 giugno 2015

Marcello Scalas

BASSA TENSIONE
 
 
   

Bassa tensione di Marcello Scalas è un intervento di arte pubblica effimera dove spazio e materia interagiscono nell'ambiente urbano.
 
 

       
REALMENTE - QUALCUNO C'E' STATO. QUALCUNO L'HA VISTO

L'obiettivo del progetto è stato  mostrare un  mondo di relazioni prima che di oggetti, un inanellarsi di incontri per cui non c’è lo spazio che contiene il mondo e il tempo lungo il quale avvengono gli eventi, ci sono solo processi  di interazione.

 
 
© Foto Giusy Calia


Bassa tensione - Marcello Scalas:
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Realmente - qualcuno c'è stato, qualcuno l'ha visto:
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venerdì 12 giugno 2015

Conversazione con Gabriele Morleo/artista


 Nato a Conversano in provincia di Bari, ha svolto i suoi studi di cinema alla Sapienza, a Roma. Vive e lavora tra Roma e Livorno.
Dal 2012 è il vicepresidente di Carico Massimo.
Interessato alla complessità del visivo, alle relazioni umane, alla narrazione indirizza il suo lavoro verso il racconto del tempo in cui vive. Non privilegia nessuna pratica in particolare, pur mantenendo verso il cinema, la narrazione e la video arte una particolare attenzione.
Ci incontriamo agli Ex Magazzini Generali di Livorno, dove ci siamo conosciuti e, dove dal 2012 ha sede Carico Massimo, un contenitore d’arte contemporanea, un collettivo di artisti, critici, collezionisti.

A.R.C. Partiamo dal racconto cinematografico. Come è iniziato quest’esperienza?

Viva il tifo!
G.M. E’ iniziato con una passione smodata per il cinema, perché racchiude in sé una serie di forme: l’immagine, il racconto, la parola, spesso la musica, mi piace perché ha un linguaggio complesso.
Poi essendo io legato all’immagine, al visivo ho provato a sintetizzare quelle immagini che avevo in mente e, c’è stato un momento che sono passato dal diacronico al sincronico, riempiendo queste immagini di narrazione.
La mia è una formazione basata sul racconto, ho studiato cinema, quindi tutto parte dal racconto. Che mi occupi di arte diacronica, che mi occupi di arte sincronica, comunque tendo a raccontare qualcosa, raccontare il tempo in cui vivo. Che non vuol dire la contemporaneità ma il tempo come frutto di quello che è successo. Il passato come attimo prima del futuro, il presente come ciò che è accaduto come immediatamente dopo il passato. Questo mi interessa, raccontare delle storie.


Opera effimera
A.R.C. Come è avvenuto questo passaggio?

G.M. Ho iniziato col cinema a sedici anni, con lo studio e una visione continua di film. Lo studio non mi bastava e ho iniziato a sperimentarmi, mi interessava sperimentare. Da lì sono nati una serie di cortometraggi. Poi c’è stato il film realizzato a Turi con i detenuti del carcere di Turi, il film su Gramsci.
Ho sempre realizzato delle micro installazioni che tenevo per me, non c’è mai stato un vero passaggio. Ho sempre lavorato su più livelli. In realtà il cinema è una macchina complessa, ha necessità di molti soldi e molte persone. Non mi interessa più tutto questo, ora ho voglia di lavorare in un’altra forma. Continuo a realizzare video. Sto realizzando un progetto che prevede un lavoro di rimontaggio di una serie di film che verranno utilizzati come visual.

 
Opera  effimera
A.R.C. Parliamo del film su Gramsci. Come si intitola? Cosa racconta di Gramsci?

G.M. Si intitola “Gramsci, film in forma di rosa”, 2005.
Mi interessava lavorare sulle lettere dal carcere, per una ragione semplicissima, mentre i quaderni, pur scritti all’interno di una cella, con tutte le difficoltà del caso, prevedevano una lettura meno intima, le lettere sono un fatto intimo. Scrive alla moglie, scrive alla cognata e nonostante ciò sono cariche di bellezza.
In genere quando si scrive, si pensa ad un pubblico, si riempie di una bellezza affettata il racconto, lì è naturale.
Mi è piaciuto lavorare su queste lettere, lavorare nel posto che l’ha visto detenuto. Mi interessava l’idea di giocare un po’ con i luoghi comuni, il cinema come evasione.

 A.R.C. Come nasce l’idea di lavorare con i detenuti del carcere di Turi e non solo sui testi?

Identità di carta
G.M. In realtà volevo capire quanto fossero cambiate certe condizioni di vita all’interno del carcere. Io ho una cultura molto libertaria e anti repressiva. Una società che contempla ancora il carcere è lontana da una società che ha raggiunto un discreto livello di civiltà. In qualche modo gli ho aiutati ad uscire, i loro volti hanno girato l’Italia, sono stati in Brasile. In seconda battura capire se quelle lettere, ancora oggi, per un detenuto hanno un senso.
Per il resto è un esperimento di video arte. Ho cercato di raccontare la contemporaneità di Gramsci attraverso la forma, dalla fotografia alla musica, non attraverso il contenuto. E’ un film su Gramsci che ha i Sigur Ròs come colonna sonora.



Colin Darke, Gli dei partono, installazione, 2012, dettaglio
 foto Carico Massimo 
A.R.C. Dove possiamo vedere il film?

G.M. Il film si trova ancora in qualche bancarella, mi è capitato di vederlo in giro. Su internet non c’è, per quanto dopo dieci anni, sono passati esattamente dieci anni dalla realizzazione, ho intenzione di metterlo in rete.

A.R.C. Te lo chiedevo perché nel caso ci fosse, lo possiamo linkare sull’intervista, anche in frammenti, se ci sono frammenti.

G.M. Sì, certo anche se sull’intervista possiamo tranquillamente linkare il film che abbiamo realizzato con Federico Cavallini su Colin Darke per Carico Massimo.

 A.R.C. Ci volevo arrivare. Del resto ci siamo conosciuti qui agli ex Magazzini Generali, nel 2012, mentre Colin preparava il suo lavoro “Gli dei partono”. Lui realizzava la sua installazione e tu il video su di lui.  Raccontami come è andata.

Colin Darke, Gli dei partono, performance, 2012 -
foto Carico Massimo
G.M. Federico ed io abbiamo documentato la performance. Il video è un documentazione dell’azione performativa. Anche in questo caso, attraverso la forma abbiamo espresso il contenuto.
E’ un lavoro molto lento, commovente a tratti, nel senso che vedere un uomo che per otto ore al giorno, per due settimane incide su delle mele, con un coltellino, una lettera di Gramsci è emotivamente coinvolgente.
Abbiamo documentato il lavoro, dopo di che, io ho fatto un esperimento: l’ho proiettato in un bar di Roma, un baraccio. L’ho proiettato all’interno di un videopoker.  C’erano tre videopoker, in uno c’erano gli avventori che giocavano, e negli altri due veniva proiettato il documentario di Colin.

A.R.C. Quando l’hai realizzato?

Colin Darke, Gli dei partono, installazione, 2012 -
 foto Carico Massimo 
G.M. Un anno fa. Mi ero messo d’accordo con il proprietario, ho puntato questo proiettore e ho proiettato all’interno di queste macchinette.



 A.R.C. Come è stato percepito dagli avventori del bar?
G.M. Ha suscitato un enorme interesse, erano incuriositi, affascinati.

A.R.C. Hai inserito nel quotidiano un lavoro molto bello e complesso, all’interno di macchinette del video poker, che tutto sono tranne bellezza e complessità.  Non abbiamo detto in cosa consiste il lavoro di Colin Darke. In sintesi cos’è?

Colin Darke, Gli dei partono, installazione, 2012 -
foto Carico Massimo 
G.M. Nel video semplicemente registro la performance, documento Colin che per due settimane, otto ore al giorno, incide il testo di una corrispondenza di Gramsci - la risposta a Trosky, nel 1922, ad una richiesta di informazioni sul futurismo italiano- incidendo le singole lettere su 556 mele. Le mele sono state poi lasciate decomporre.
Le mele sono state scelte da Colin come citazione e riferimento alle mele in decomposizione dipinte da Courbet durante la prigionia, a seguito della sua partecipazione alla Comune di Parigi.

 A.R.C. Perché hai scelto il bar del Pigneto per l’installazione?

G.M. E’ un bar particolare, in via Montecuccoli, a Pigneto, dove è stato girato “Roma città aperta”.
Io ho abitato per anni lì, era il bar sotto casa e sotto il mio studio. E’ il Friends caffè, gestito da due fratelli Bengalesi, frequentato da una popolazione molto varia: pensionati, ferrovieri, migranti.
Negli anni, quando finivo un’opera, la portavo al bar, la sistemavo sul frigorifero o da un’altra parte e la lasciavo lì. Si capirà che è un’opera? Funzionava. Poi quando era assodato che fosse un opera, ho smesso.


A.R.C. Mi hai detto che ci sono dei tuoi lavori, ancora lì. C’è stato un seguito a questo esperimento?

G.M. Si, in seguito il proprietario mi ha chiesto un lavoro su “Roma città aperta”. Ho riproposto la scena della Magnani che scappa, dove c’è la folla che si assembla.
Ho semplicemente inserito un a freccia con il pennarello scrivendo “voi siete qui”.
Da quel momento ho iniziato a fotografare chiunque si sedesse lì. Sono spesso migranti, pensionati, studenti. E’ quel discorso sulla storia che è un movimento continuo.

 A.R.C. Abbiamo citato Carico Massimo. Cos’è?

G.M. E’ un contenitore d’arte contemporanea, dove degli artisti, collezionisti, curatori d’arte contemporanea hanno deciso di provare a fare questo esperimento: artisti che scelgono artisti. Il nostro vero capitale è questo: artisti che lavorano con altri artisti. La bellezza di lavorare con Colin Darke, con Gianfranco Barruchello, Babi Badalov. E’ una bella soddisfazione è sembra che funzioni.

A.R.C.

VIDEO Colin Darke, Gli artisti partono, 2012


gabrielemorleo.weebly.com

Conversazione con Federico Cavallini


lunedì 1 giugno 2015

Conversazione con Giovanna Ricotta/artista



Per mezzo di modalità espressive sintetizzabili nella performance e nel video Giovanna Ricotta disciplina il proprio corpo fino a raggiungere la condizione di oggetto.
 I gesti sono caratterizzati da una maniacale perfezione, addomesticati fino allo status di rituali performativi così che il corpo, al fine di raggiungere una condizione superiore, un obiettivo eroico oltre i limiti, perde la sua connotazione e arriva all’estrema condizione di oggetto, perfetta sintesi che nell’uso del colore bianco ha la sua concettualizzazione massima. Il nero altrettanto radicale è presente, negli ultimi lavori, come separazione.
Con l’ultimo progetto Non sei più tu ha raggiunto la sintesi assoluta della performance.
 

Toillette, 2008, foto
A.R.C. Parlami di Toillette, il lavoro in catalogo per i vent’anni della Galleria Marconi in Marche Centro d’Arte 2015.

GR Toillette è un lavoro del 2008 eseguito alla fabbrica Borroni a Bollate, Milano. L’idea è quella di rappresentare con una performance il mondo dell’arte contemporanea, e quindi di essere io sia giudice che damina, sia di me stessa che del sistema. Per una volta giudicare ed essere giudicata, costruendo due paradossi. Ho scelto di essere una figura dell’Ottocento, come giudice e come damina, maschio e femmina, per la frivolezza.
Per dire delle cose assolutamente forti in modo delicato.

Go fly, 2004, foto
A.R.C. Nella mostra Sub Specie Aeternitatis a cura di Rebecca Delmenico, pensata per questo progetto è presente, però, un altro tuo lavoro, Go Fly. Perché questa doppia scelta?

GR Se in mostra abbiamo Go Fly, dove il bianco su bianco impera come presa di coscienza -il corpo bianco, lo spazio bianco, l’abito bianco e l’installazione stessa bianca, un richiamo al corpo performativo- in Toilette aggiungo questi rosa carne. Chiamiamola carnalità, ma solo in parte, una micro definizione nella quale percorro un tappeto performativo per arrivare a questa toilette dell’Ottocento, dove eseguo una serie di azioni finali e conclusive al lavoro.
Il bianco fa sì che il corpo sparisca e l’oggetto arrivi in primo piano, il corpo stesso del lavoro.


Toillette, 2008, foto
A.R.C. Il bianco è un elemento dominate in tutte le tue performance, non è solo assenza di colore. Perché questa scelta?

GR Perché, quando usi questo non colore il corpo diventa spazio stesso. Il bianco è’ luminoso, quindi confonde. Tendo a cercare spazi, dove eseguire le performance, che siano bianchi. Lo facevo soprattutto in quel periodo. Go Fly è del 2004. Spazi molto asettici quindi il valore è dato dal concetto del lavoro. Lo privo quasi totalmente di qualunque elemento, il più possibile.
Essendo la performance, già di suo, qualcosa di spettacolare, vado a sottrazione, preferisco che, anche se compio azioni che nel mio corpo sono sempre minimal, esse stesse diventino ancora più minimal.
 
No Sense, 2005, foto
A.R.C. Corpo e azione si confondano con lo spazio…

GR Sì, lo potenziano, in un certo senso lo definiscono ma non lo caricano di intenzioni altre.

 
A.R.C. Quanto è durato questo tuo lavoro sul bianco?

GR L’ho iniziato coscientemente intorno al 2002, continuo a portarlo avanti in un altro modo ancora oggi, strutturandolo in maniera un po’ diversa.
 

A.R.C. Il bianco ti permette di annullare il tuo corpo per dare più corpo all’oggetto. Qual’ è l’azione che compi in Go Fly?

GR E’ il periodo del bianco e dello sport. Ho analizzato moltissimo il concetto di sport e di atletica, come disciplina. Uno sportivo deve avere il controllo del corpo, una disciplina della mente che io non posso avere. Quindi mi sono messa nella condizione di analizzare lo scatto nello sport. In questo caso lo scatto di velocità del salto all’ostacolo. L’ambiente bianco, questa pedana lunghissima, che rappresentava più o meno la linea dallo scatto al salto, con l’ostacolo finale, anch’esso bianco, dove io affronto un comando che mi invento. In realtà il comando è On your marks – Set –  Go ovvero Pronti – Partenza – Via. Go fly non esiste. Go fly è un comando per non avere più paura dell’amore.

Fai la cosa giusta, 2010, foto
 A.R.C. Nel corso del tempo cè stato un cambiamento delle scelte cromatiche, misurato ma costante che arriva a Toilette 2008, con questo inserimento del rosa e prosegue fino ad oggi.
E' un sostanziale cambiamento sopratutto concettuale. In che forma si manifesta?

GR Come accade a tutti gli artisti, si attraversano delle fasi. Parlando di Go Fly, che è del 2004 si arriva a Toilette nel 2008, per arrivare poi ai lavori del 2010-2012 dove comunque il bianco rimane una costante molto evidente, quasi metodologica del lavoro stesso. Però, nel 2010 ho inserito il nero come separazione. Da lì non c’è più stata la consapevolezza di non usare il bianco, di non usare le trasparenze o di non usare il rosa, ma di usare il corpo, di usare questi elementi in un altro modo. Quel lavoro si chiama Fai la cosa giusta è stato un passaggio necessario che è diventata consapevolezza e adesso l’oggetto stesso per me è diventato molto più forte. L’oggetto ha quasi mangiato il corpo, se vuoi il corpo è diventato scultura.
Per me in questo momento, se la pittura sta al video e il video alla pittura, la scultura sta alla performance e viceversa.
 




Falene, 2012, foto
A.R.C. Perché hai scelto la performance come pratica per il tuo lavoro?
Come sei arrivata a questo tipo di scelta?

GR E’ stata una sorta di necessità. Appena finita l’Accademia nel ’96, già sperimentavo installazioni. In realtà mancava sempre qualcosa, un suono, un movimento e non sapevo cosa. Il richiamo è stata una mostra di giovanissimi artisti e, ho voluto sperimentare questo spazio con il corpo. E’ scattato un amore. Ho capito che per me era necessario mettermi dentro, totalmente, al lavoro e con questo annullare me stessa. Quindi anche lì andare di sottrazione di ego e quant’altro.
Ecco che sto arrivando al punto di togliermi, per lo meno adesso, non che non ci sarò più. Ma c’è una riflessione, un periodo dove annullo ancora di più l’ego. Faccio sì che l’opera stessa funzioni senza la mia presenza, che queste sculture, non è la parola giusta, questi oggetti, comunque sculture, prendano il corpo e diventino esse stesse performance.

 A.R.C. Nei tuoi ultimi lavori stai andando in questa direzione?

GR Sì, sì per l'appunto.

 
Non sei più tu, 2015, monocromo
A.R.C. Fra qualche settimana presenterai il tuo ultimo lavoro nel Palazzo Pretorio di Cittadella (PD). La mostra, a cura di Guido Bartorelli e Silvia Grandi, è una sorta di retrospettiva che contiene, come parte centrale dell’intero progetto, un nuovo lavoro Non sei più tu. Dalle note stampa mi è parso di capire che hai ribaltato il rapporto corpo-oggetto, oggetto-corpo presente nei lavori di cui abbiamo parlato fin ora. Mi puoi anticipare qualcosa?

GR Da un certo punto di vista c’è stata una sorta di inconsapevolezza nel capire, una sorta di fermo. Metodologicamente sentivo che potevo reiterare un lavoro ma non mi piaceva più. Sentivo che c’era qualcosa di nuovo da dire. Non sapevo come fare, perché dovevo inventarlo e a me non piace, dovevo sentirlo, in qualche modo. Sentire questa sorta di novità. Allora, partendo dal concetto che ti accennavo prima, per cui oggi il video sta alla pittura e la performance alla scultura, ho capito che concettualmente dovevo dire qualcosa alla performance, dare una sorta di passaggio alla performance.
Il lavoro si intitola Non sei più tu. Non sei più la cosa di prima, non sei più la cosa di adesso. Ma non sei più tu, non solo io, il mondo. Lavoro sempre in forma di disciplina e di pensiero, una sorta di domanda: <<Non sei più tu?>> <<No, non sono più io>>. Non c’è arroganza. Non sono più io così come mi vedi.




 

Non sei più tu, 2015
A.R.C. Un oggetto che riassume la forma, come?

GR Quando utilizziamo il cellulare, Skype, estraiamo totalmente il corpo in senso fisico dalla relazione da quella che è l’interazione virtuale.
Ma come può un corpo essere virtuale se non è fisico? Risulta quasi un oggetto che riassume la forma, ti dice delle cose, ti comunica perché lo tocchi, perché lo vedi. Ci entri all’interno in un certo qual modo, allora nasce questo lavoro che è Non sei più tu.
E’ formato da un’urna, perché è un urna, non è funeraria ma è un’urna, eseguita in 3D, con una stampante in 3D.
Tre fotografie della pelle, la superficie, la texture. L’oggetto stesso è Giovanna Ricotta, che non si muove, ma è il corpo Giovanna Ricotta.
La sua superficie in tre monocromi: sono la pelle esterna dell’oggetto; l’interno che contiene la graffite, il colore dell’artista, la matita la prima arma dell’artista; la parte alta, la chiusura, un cappello griffato all’interno con GR, come un timbro, è la testa dell’artista, il pensiero dell’artista.
Questi tre monocromi rappresentano queste tre situazioni, più l’oggetto. Non più fotografare l’artista in azione che fa la performance: tipo fronte retro, alto basso, ma l’oggetto stesso con la texture che concettualmente fa un altro passaggio e rappresenta l’oggetto artistico performativo in questi passaggi, con i monocromi. Quasi un disegno su un disegno.


Non sei più tu, 2015, monocromo


 
A.R.C. Hai raggiunto l’obiettivo di trasformarti in cosa.

GR Esatto.

A.R.C. Al momento hai eliminato la tua presenza fisica, e poi?

GR Questo lavoro è un passaggio di una cosa che non può non essere notata o citata, ciò non vuol dire che si deve togliere dalla performance questa forma di interazione, ma non può più svolgersi senza questo passaggio necessario. Penso che sia la sintesi assoluta della performance. Metto un punto alla performance è dico <<Questa è una performance, ed è fatta così>>.

A.R.C.

  

 
 
 

 
 
VIDEO
Falene 2012




MARCHE CENTRO D'ARTE - 5^ Edizione