martedì 29 novembre 2016

Ai

Questa non è una recensione, è piuttosto una pagina di taccuino in differita. Raccoglie memorie di luoghi e cose che appartengono a spazi e tempi differenti. E' fallace come la memoria e l'osservazione distratta.


















































 
 






Alcune di queste immagini sono state scattate a Palazzo Strozzi e riguardano la mostra "Libero" di Ai Wei Wei. Il vasellame, le statuine, i mobili, i pesci in vetro colorato appartengono alla collezione del Museo di Arte Asiatica Guimet di Parigi mentre gli scheletri appartengono a balene spiaggiate sulla costa toscana e sono custodite al Museo di Storia Naturale del Mediterraneo di Livorno. Solo la cavalletta, comprata qualche anno fa in piazza Santa Maria Novella, è un manufatto realizzato da un anziano ambulante cinese. Ho anche una rana.
Non è necessario spiegare le associazioni visive di questa sequenza di immagini (eviterei anche un'analisi formale degli scatti, un po' abusivi, schizzi di memoria), ma un paio di cose le voglio dire. Ad esempio, le statuine, che presumo rappresentino due personaggi vestiti all'orientale, le parrucche tradiscono la provenienza tutta europea dei due, appartengono ad un produzione di porcellane cinesi del XVIII secolo eseguite esclusivamente per l'estero, le famose cineserie importate dai mercanti olandesi per il mercato occidentale. I piattini e i vasi appartengono ai periodi Kangxi e Yongzheng, le sedute e i mobiletti sono della stessa epoca XVII-XVIII secolo. I pesci in vetro sono del I secolo e appartengono al tesoro di Begram, arte del Gandhara, manufatti alessandrini. Al Guimet dello stesso tesoro si conservano statue di divinità greco-romane con occhi a mandorla e il tipico tratto lineare delle sopracciglia, le orecchie grandi e il sorriso enigmatico, dei Budda alessandrini o dei Dioniso indiani. Mi spiace non aver preso qualche appunto in più. Mi rendo conto che alcuni fatti si ricordano meglio, altri meno.
Di "Libero" si può dire una infinità di cose, ma due concetti mi sono sembrati veramente straordinari rispetto a quello che è il tema centrale, la libertà, cioè l'attenzione verso la conoscenza e il lavoro come competenza alta, non sfruttamento, il senso di straniamento continuo degli espatriati e di chi è sempre in continua ricostruzione di sé. L' attenzione verso la conservazione, distruzione e ricostruzione di una società attraverso quelli che sono i suoi fondamenti culturali, le sue follie, la perfezione ossessiva, la mania del controllo. C'è un dentro e un fuori, chi controlla e chi subisce, chi tenta la fuga e chi cerca di farne parte, la dignità del lavoro e lo sfruttamento. La consapevolezza della barbarie culturale che ha trasformato la Cina, l'appiattimento della cultura contemporanea orientale e di quella occidentale si intrecciano continuamente secondo implicazioni complesse, spesso contraddittorie. Firenze rappresenta nell'immaginario e di fatto il luogo di formazione del moderno concetto di arte e finanza, oggi questo modello è incarnato dalla Cina. E' come un ritorno a casa differito nello spazio e nel tempo. Associare Ai Wei Wei a Duchamp e Wharol mi pare evidente, l'effetto derivato è ben presente.
La location, come si dice, fa parte dell'opera, ne rappresenta il packaging: Palazzo Strozzi come un grande piedistallo per la piazza che è Firenze. Non si può considerare la mostra se non includendo al suo interno, come opera, tutte le stratificate implicazioni che l'edificio e il "tutt'intorno" rappresentano. Per tutt'intorno intendo i negozi extra-lusso, i venditori di falsi extra-lusso e le cianfrusaglie, gli artisti, il Rinascimento, l'emigrazione, la fuga, le comunità diasporiche, la distrazione di massa, i capannoni industriali di Prato, Osmannoro, Campi Bisenzio dove vive e lavora la comunità cinese più grande d'Italia.

ARC





 
 
 
 


















giovedì 10 novembre 2016

Mittelmeer




Testo
Mittelmeer



foto Roberta Filippelli




 

 
foto Roberta Filippelli


foto Roberta Filippelli
 
foto Roberta Filippelli
foto Roberta Filippelli

martedì 30 agosto 2016

La città che sale

 
<<Mah!… Napoli, com’è?>>
E come faccio a spiegarti. Non ho fotografato neppure il caldo cocente di mezzogiorno in certe vie assolate che scendono verso il porto e la frescura dei vicoli laterali, il vento che sale dal porto e s’incanala lungo le strade in salita fino al Museo Archeologico, e poi su, su fino a Capodimonte. Non ho fotografato il Museo e la Reggia. Non ho fotografato il senso di casa e pulito, prodotto dall’alternanza tra il profumo del bucato steso e le fragranze sintetiche di pino, candeggina, aiax dell’acqua sporca accuratamente spazzata via sui marciapiedi davanti ai portoni delle case, dei negozi, che sale su per le narici man mano che avanzi in Via dei Tribunali; i taxi e i motorini che gincanano sulle stradine dei Quartieri. Santa Chiara, San Domenico, le catacombe e il Cristo velato. Non ho fotografato i turisti in fila per una pizza fritta, per un babà o una sfogliatella, il Duomo e neppure la Cappella di San Gennaro linda, profumata e lucida.
Alcune chiese barocche, soprattutto in provincia, mi hanno assuefatta al grigio della polvere, delle ragnatele su stucchi e statue; ai dipinti anneriti dal fumo, alle suppellettili di mediocre fattura aggiunte di recente. I fiori di plastica, le candele elettriche. La cappella di san Gennaro è un’altra cosa. Foto modeste non sarebbero in grado di rendere tangibile lo stupore di quel momento. Non lo stupore che si prova difronte alla bellezza di un oggetto ammirato, la cui visione conferma l'opinione corrente ma lo stupore che suscita il risultato della cura a cui è sottoposta. Cura e devozione pari o superiore a quella che si rivolge a una persona amata: pulita, nutrita e abbigliata. La cappella di San Gennaro è viva.
Non ho fotografato il mercato a valle di quella scalinata che parallela alla Funicolare di Montesanto viene giù come lava da Castel Sant’Elmo. Ad ogni scalino verso il basso pensavo alle migliaia di piedi napoletani che l’hanno fatta, ogni giorno, in salita. Funiculì funiculà la capisci quando dopo quaranta minuti di scalini arrivi al mercato di Pignasecca. E sei in discesa. Non ho fotografato la pescheria in cui è stato cotto il mio pesce fritto, le tripperie incassate in pochi metri quadri, la pizzeria con schermo esterno che trasmette in diretta l’immagine di una padella d’olio sfrigolante. No, non le ho fotografate. Non ho fotografato la salita a Capodimonte. Arresi al caldo abbiamo preso l’autobus. Ma non ho fotografato neppure le fermate e i momenti lenti in curva. Non ho fotografato la passeggiata in Via Toledo. Tutti sul lato ombreggiato, sudati e in cerca di emozioni. Sull'altro lato nessuno. Una linea netta di luce e ombra marca il percorso. E poi, in cerca di refrigerio d’aria condizionata, magari trovare l’occasione del millennio, negli ultimi giorni di saldi. Non si può fotografare. Comunque l’offerta del millennio non l’ho trovata. Non ho fotografato i senza tetto appena svegli la mattina presto sui prati dei giardinetti di Porta Capuana, il variegato popoli di ogni dove bivaccare tra la stazione e la Piazza Garibaldi. E, strano ma vero, i banchetti del gioco delle tre carte (o tre tappini di plastica, la versione moderna) uno dietro l'altro. Non ho fotografato il cuoco indiano che per alcune sere, subito fuori la stazione della metropolitana Garibaldi, ci ha sfamato con il suo internazional riso kebab. I clienti indiani, somali, eritrei e così via. Non ho fotografato il parco della Villa Comunale di Chiaia, riposo e refrigerio dal sole del tardo pomeriggio, lungo via Caracciolo, sempre di fronte a noi. Spesso i luoghi comuni sono verità. Solo una canzone può rendere la bellezza di certe esperienze.
Con lo smartphone e la piccola macchinetta ho prodotto un inganno della memoria da turista, e non al primo sguardo ma al secondo o terzo passaggio, quando non era più <<a prima vista>>, a volte fuori fuoco, con poca luce e in equilibrio sbilenco. Qualcuna è rimasta fuori, qualcuna si avvicina alla mediocrità. Alcune sono qui. Però ho visto la retrospettiva di Mimmo Jodice.
 
 





 
  
 
 




















 


 



 
 
ARC