mercoledì 5 novembre 2014

Conversazione con Giusy Calia/ artista.


Giusy Calia, "Sylva", 2010
Una lunga conversazione con Giusy Calia mi dà l’opportunità di comprendere meglio l’evolversi del suo lavoro, nato attorno a due o tre temi privilegiati.
 A partire dal concetto di eccentricità, come posizione rispetto ad una norma codificata (in “Sylva” 2010-2012 e, la follia declinata nelle varianti in “Case matte” 2004-2014, “Ofelie” 2002-2014) Giusy Calia costruisce un mondo esteticamente piacevole nel quale si insinua continuamente il verme del non detto, del sopruso, del pregiudizio, della violenza rappresentata all'interno di ambientazioni teatralizzate e inserita in contesti riflettenti come l'acqua, in un continuo capovolgimento del reale nel riflesso, del soggetto nel simulacro.
La messa in scena e il travestimento sono al servizio della fotografia come mezzo capace di dare corpo ad un luogo parallelo, una realtà altra dove il bello conforme si corrompe con il non conforme dell’emarginato; l’interesse per la psicologia e l’attrazione verso tutto ciò che è oscuro si trasformano nel materiale di lavoro.
Con “Alchimia dell’immagine” arriva a sondare gli interrogativi dell'irrazionale attraverso la bidimensionalità decorativa, annullando quasi completamente la profondità di campo e la piacevolezza del soggetto ritratto, in un viaggio ancora tutto da fare, nel groviglio che è la mente umana.

A.R.C. I tuoi lavori nascono dagli incontri, senza incontri non ci sarebbero i tuoi lavori.
Raccontami come è nata la cartolina per “La magnifica ossessione”, un progetto a cui sono legati altri incontri e altri progetti.
G.C. L’incontro nasce da una casualità, come tutte le cose che mi accadono. Da una sorta di sincronicità.
Nel settembre 2013 mi trovavo a Rovereto. Mi è stato chiesto di guardarmi intorno ed avere un’idea, rispetto ad una cartolina che avrebbe dovuto viaggiare per il mondo. Poi, mi è stato chiesto: qual è la tua ossessione? La mia “Magnifica ossessione” chiaramente è Ofelia. Uno dei miei lavori sempre aperti. E’ il mio dialogo costante e continuo.
Nel momento in cui ho visto la cupola che si rifletteva nella fontana del Museo Mart ho immediatamente visualizzato un’ Ofelia.
Avevo una macchinetta che uso come diario, la macchinetta degli appunti, non avevo nessuna strumentazione. Ho potuto scegliere la modella tra alcune ragazze messe a disposizione per lo scatto e una sarta per l’abito. In pieno settembre, inizi ottobre la modella è stata buttata nell’acqua della fontana.
E’ stato molto interessante, più delle altre “Ofelie” che erano immerse nella natura, questo è immersa in un’architettura. Ho realizzato quattro scatti, non era possibile lasciare la modella nell’acqua gelida per più tempo. E’ nata così questa cartolina, che ha viaggiato più di me.

A.R.C. Prima di parlare degli ultimissimi progetti, rimaniamo sulle “Ofelie”. Sono un filo rosso di tutta la tua ricerca artistica. Un progetto aperto, come hai detto prima. Raccontami di questa serie infinita.
Giusy Calia, "Ofelia" 2002
G.C. E’ come ritornare a casa, come ritornare nell’ incoscio.
“Ofelie” nasce nell’incontro con le mie viscere, con tutto ciò che è rimosso. Per me le ”Ofelie” hanno un aspetto sia mortifero che di profonda vitalità.
Nasce dall’incontro con i Prerafaelliti, all’età di quindici anni. Ne fui immediatamente colpita. Hanno sempre rappresentato il mio immaginario poetico, letterario, visivo. Partendo dai Preraffaelliti sono approdata alle Ofelie.
La prima Ofelia è stata realizzata a Su Cologone (NU) nel 2002. L’acqua sempre gelida, sempre temperature al limite del freddo obitoriale.
Per quanto possano apparire rassegnate, per me sono donne che prendono in mano il proprio destino -al contrario di Amleto-, decidono con chiarezza quello che vogliono dalla loro vita e si fanno soggetto narrante, cosa che Amleto non fa nella interrogazione continua e costante di sé e del fantasma del padre. Per me Amleto è mortifero e Ofelia è la vita.
Poi è arrivata la lettura di “Psicoanalisi delle acque” di Gaston Bachelard, che ha tradotto quelli che sono per me degli aspetti simbolici intraducibili. Lui è riuscito a tradurli in parole, io ho cercato di farlo in immagini.
Mi rendevo conto che a queste ”Ofelie” mancava sempre qualcosa, sempre di più.
Per questo l’Ofelia del Mart è stata quasi un punto fermo. Da quella in poi ho deciso di fare altro, di avere una visione diversa della mia “Ofelia”. In realtà, posso dire che Ofelia sono io e di essere cresciuta attraverso queste immagini.
Le mie modelle hanno avuto un rapporto super particolare con l’acqua, sono loro che si sono espresse.
Ho sempre lasciato loro la libera espressione.
Mi ricordo una modella, Sara, una delle “Ofelie” esposte a Palazzo Fortuny per la mostra “Le amazzoni della Fotografia”, ad un certo punto è diventata un tutt’uno con i rami.

Giusy Calia, "Memoria dell'acqua", 2013-2014, Collezione Trevisan
A.R.C. Hai citato “Le amazzoni della Fotografia”, come nasce la tua presenza in questa mostra.
G.C. Sono stata invitata da Mario Trevisan, un collezionista, che ha visto proprio l’immagine della “Magnifica Ossessione”. Ha voluto vedere altri miei lavori, mi ha contattato, e ha scelto per la sua collezione due mie fotografie.

A.R.C. Deve essere stato particolarmente emozionante per te essere nella stessa mostra con Julia M. Cameron, Diane Arbus, Bettina Rheims. Quelle che indirettamente sono state le tue maestre.
G.C. Diciamo un sogno realizzato. Quando ero piccola trovai un catalogo, in un mercatino dell’usato, di Julia M.Cameron, e me ne sono profondamente innamorata.

Giusy Calia,"Sylva", 2010
A.R.C. Del resto le “Ofelie” risentono molto dell’atmosfera e della costruzione estetica della Cameron.
G.C. Sì, immagina essere esposta accanto ad una delle mie più grandi maestre, vedere il mio nome tra queste grandi. E’ stato emozionante, ma l’ho preso con grande ironia, quasi un capriccio del destino.

A.R.C. E’ stato un riconoscimento del tuo lavoro.
G.C. E’ stato un grande riconoscimento, come è accaduto in Russia...

A.R.C. Ecco, parliamo della Russia. Negli ultimi due anni sono accadute cose molto interessanti, ad esempio hai partecipato alla quinta 5^ di fotografia di Mosca 2013, in uno degli eventi collaterali “Venti per una” a cura di Martina Corgniati.
G.C. Grazie alla cartolina della “Magnifica ossessione”. Ha viaggiato più di me come ti ho detto, ed è arrivata nelle mani giuste. Martina Corniati mi ha chiamato, ha chiesto il mio numero di telefono per invitarmi a questo progetto. Sono stata molto felice di farlo, avrei voluto anche andare di persona, non ho potuto farlo per varie ragioni. Così è nato “Una stanza tutta per sé”.

A.R.C. Ancora un tuo punto di riferimento letterario, questa volta Virginia Woolf. Il tuo lavoro è un insieme di punti di riferimento visivi, letterari, poetici ed emotivi.
Giusy Calia, "Una stanza tutta per sé", 2013-2014
G.C. Sì, mi definisco una fotografa emozionale. Non riesco a fare nessun tipo di fotografia se non sono mossa da una grande emotività.

A.R.C. Lo dicevamo prima. Il tuo è un lavoro di incontri. Ritorniamo alla Biennale di Mosca. Raccontami.
G.C. La fotografia è piuttosto grande. Sono tre stampe del manicomio di Firenze, riprese in tre diversi momenti. Il primo momento è quello nel quale la natura non ha corroso niente di questa stanza: ci sono frammenti di cose abbandonate. Poi, arriva l’acqua e terzo la muffa. E come se entrando nella stessa stanza ci trovassimo difronte ad un mondo altro.

Giusy Calia, "Caratteri ereditari e mutazioni genetiche",
2011, Man, Nuoro, dettaglio
A.R.C. Ancora il manicomio. Uno dei tuoi primi lavori è sul manicomio di Sassari. Se non sbaglio è stato le “Le case matte” 2004. Un altro lavoro aperto. Avevi fotografato Rizzeddu che è il manicomio di Sassari.
G.C. Ho fotografato anche il manicomio di Cagliari, di Udine, Firenze, Siena. Ho fotografato vari manicomi d’Italia. E’ come se avessi fotografato sempre lo stesso manicomio, perchè quello che si trova è sempre la stessa cosa.

A.R.C. Sono tutti uguali, architettonicamente, il rapporto tra lo spazio esterno e il degrado interno. Quasi tutti sono edifici abbandonati.
Giusy Calia, "Caratteri ereditari e mutazioni genetiche",
2011, Man, Nuoro
G.C. Stile Liberty. A parte il manicomio di Volterra che penso sia uno dei più belli. Dove Oreste Fernando ha inciso nella pietra parti della sua vita, intraducibili. Sono 110 m² incisioni purtroppo in forte degrado. Oreste Fernando Nannetti, questo ricoverato, che pensava di avere rapporti con gli extraterrestri.
L’ultimo lavoro che ho fatto sui manicomi è proprio il lavoro di NOF, è l’acronimo del suo nome, così si definisce NOF4.


A.R.C. Nel tuo immaginario si muovono tre o quattro temi molto legati, si incastrano a partire da un’estetica preraffaelleita che necessariamente include Julia M.Cameron, Virginia Woolf, Ofelia, la follia. Hai da subito creato un intreccio che è diventato il nucleo del tuo lavoro a partire dalle “Ofelie”. Mi colpì subito moltissimo, il progetto era ancora molto giovane, ma era difficile distogliere lo sguardo.
Protagonista del tuo ultimissimo lavoro è però una parte dell’occhio: l’iride.

Giusy Calia, "Alchimia dell'immagine" 2013-2014, Mart, Rovereto
G.C. L’iride dell’occhio è stato esposto per la prima volta nella tua mostra “Le fondamenta degli incurabili” del 2013. Il libro di Broskij era il mio libro da comodino e adoro questo titolo. Tra l’altro sei la prima che ha scritto delle “Ofelie”. Vedi gli intrecci e gli incontri.
Da quel momento ho iniziato a capire che dentro l’occhio c’era un’esigenza, quella di essere tradotto, ma tradotto nella mia forma. Mi sono chiesta cosa può tradurre qualcosa senza disperderne l’essenza? L’alchimia.
Ho ripreso delle antiche foto fatte in libri vecchissimi, fatte andando per musei. Ho molte immagini delle tavole alchemiche. Mi son chiesta perchè non mischiarle? Provare a creare una commistione tra occhio e parole, le parole e le immagini, parole e simboli. Così è nato qualcosa di molto interessante per quanto riguarda il colore, la forma, la dimensione, apparentemente intraducibile, illeggibile.

A.R.C. Rispetto ai tuoi lavori precedenti, in “Alchimia dell’immagine” prevale la linea e il colore, sembrano immagini astratte, un bidimensionale quasi assoluto. E’ difficile riconoscere soggetti completi. Tutto si svolge in superficie. Riconduce ad un’estetica primitiva, medievale. E’ presente molta decorazione.
Giusy Calia, "Alchimia dell'immagine" 2013-2014
Mart, Rovereto
G.C. Sì, quasi Medievale. Mi sono resa conto guardando tutte le immagini di aver citato, involontariamente, questa volta, senza nessun tipo di ragionamento “Il libro rosso” di Jung. Mi sono resa conto di avere ripreso un filo rosso con un altro mio maestro. Ho sempre considerato Jung un mio maestro.
Mi ha permesso di aprire molte porte che io pensavo dovessero rimanere chiuse. Come se mi avesse detto sei sulla buona strada. Come dici tu questo lavoro è totalmente diverso dagli altri.
Non riesco più ad accontentarmi della fotografia semplice. Ho bisogno della materia. Mi piace la foto sgranata. Forse è un’esigenza di pittura.
Ora sto lavorando ad un progetto che si chiama “Simbolismo”. Tutte le immagini che ho scattato sono sovrapposte. Ho bisogno di colori acidi, di colori densi. Una realtà fornita di uno sguardo oltre.

A.R.C. Tutto questo era già presente in “Caratteri ereditari e mutazioni genetiche” 2011, dove alcune foto erano molto scure, altre graffiate. Il materico si percepiva molto. 
Giusy Calia, "Alchimia dell'immagine" 2013-2014
Mart, Rovereto, dettaglio
Hai superato la bellezza dei Prerafaelliti?
G.C.  Ancorarsi alla bellezza ti fa sentire sicuro. Non ho più paura della bruttezza, la voglio affrontare.
Chi crea immagini ha una forte responsabilità. Perchè l’immagine è un veicolo molto superiore alla parola, arriva senza mediazione, muove aspetti a livello inconscio molto forti.
Non mi interessa proporre immagini eccessive. Anche le immagini di DNA riconducevano alla bellezza, non erano sgradevoli. Però era come se in qualche modo non ti concedessero riposo. Ti interrogassero. Ti ponevano un dubbio.

A.R.C. A proposito di interrogativi e mancanza di riposo. Mi è venuto in mente un tuo lavoro sulla stanza di Alda Merini che hai realizzato per la mostra “Ma Maison n'est pas Grande”. Come è stato fotografare Alda Merini entrare nel suo mondo.


Giusy Calia, "Alda Merini un'anima sconosciuta"
G.C. L’esperienza di fotografare Alda Merini è stata molto traumatica. Primo, per il peso che sentivo, la responsabilità. Secondo, non riuscivo mai a metterla a fuoco, tanto ero emozionata. Terzo, a casa sua tutti i parametri della fotografia venivano sputtanati, perchè era sempre buio - io non uso il flash nelle mie immagini. Oppure mentre fotografavo, qualcosa bruciava: il letto, i soldi.
Era sempre pronta a cambiare immagine, ti destabilizzava.
Però fotografarla è stato super interessante.
Mi pento di una cosa, un giorno avrei potuto fotografare tutta la casa, e forse avrebbe parlato più di lei, anche perchè le immagini di Alda sono molto riconoscibili.
Pensa al suo muro dove scriveva con il rossetto. Con il rossetto scriveva anche sul suo corpo, era tutto sbavature.
Giusy Calia, "Alda Merini", 2013, dettaglio
Era la prima volta che esponevo un’opera con Alda Merini. E’ stato un regalo che ho fatto a Solarussa. Lei, il suo muro e la voce che avevo registrato. In un museo forse non l’avrei fatto.
Il tema era la casa, in una casa, mi sembrava più interessante. Era per pochi in quel momento. Anche se la mostra è stata visitata, ma la dimensione domestica mi interessava per la sua intimità.
Per me le mostre più belle sono quelle che non ho mai fatto per un pubblico.
La mostra più bella è stata quella che ho fatto per una sola persona, nei vagoni di un treno abbandonato. Così come è stato l’allestimento di una mostra in una Villa abbandonata del Piemonte.

A.R.C.


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